Una cena straordinariamente ordinaria; una conversazione insignificante a tavola; una serata tranquilla, dove a pensarci e ripensarci, riviverla e analizzarla, a posteriori, non si troverebbe la traccia di alcuna anomalia. Solo una serata come tante, di routine, che si trasforma improvvisamente in un incubo: Belle Steiner, 18 anni, pelle diafana e lunghi capelli color rame, è stata strangolata a morte nella casa dei coniugi Pierre e Clèa, dov’era ospite. Nessuno sa niente, ma il giovane corpo di Belle giace immobile e nudo sul pavimento e niente sarà mai più in grado di donargli ancora una volta la vita. Non una spiegazione, né una traccia, ma un giallo sempre più fitto nel quale si ripete un grande interrogativo: chi ha ucciso Belle Steiner?
Avvolto da un’iniziale atmosfera di calma, che ben presto si trasforma in repentina tensione, si apre così Il caso Belle Steiner, il nuovo film di Benoît Jacquot, ispirato al romanzo La morte di Belle di Georges Simenon (edito in Italia da Adelphi), pubblicato per la prima volta nel 1952. Un thriller psicologico e un’inquietante storia di omicidio passionale, che contiene al suo interno un duplice omaggio al grandioso scrittore belga, maestro di decine di gialli e tradotto in 47 lingue in tutto il mondo, ma anche al precedente adattamento cinematografico dal titolo Chi ha ucciso Bella Shermann?, passato nelle sale nel 1961 con la regia di Édouard Molinaro.

Il caso Belle Steiner, uscito nei cinema italiani a marzo, rende vividi i personaggi di Simenon con un cast d’eccezione: la celebre Charlotte Gainsbourg veste i panni di Clèa, una donna posata e gentile che accetta ingenuamente di ospitare per qualche tempo Belle, la figlia diciottenne di un’amica, nella casa in cui vive assieme al marito. Pierre, il marito di Clèa, è invece interpretato da Guillame Canet. Pierre è un semplice professore del liceo e un uomo estremamente abitudinario, perfino noioso nei suoi piccoli rituali di routine. I due, insieme, formano quella che si potrebbe definire “una bella coppia”: persone ordinarie, con una vita assolutamente comune. Eppure, quella che inizialmente sembra solo una fatale coincidenza ben presto si ritorce contro Pierre, rendendolo l’unico sospettato dell’efferato omicidio di Belle. Pierre è infatti l’ultimo a vedere la ragazza ancora viva, mentre rientra a casa da una serata trascorsa al cinema. La ragazza appare distaccata, mentre lo saluta con uno sbrigativo cenno della mano fuori dalla finestra, in una gelida sera invernale. Una serata qualunque in cui Belle, dopo essere tornata nella sua stanza, viene violentata e brutalmente strangolata fino alla morte. In casa, l’unico presente in quel tragico momento è proprio Pierre, che però, dopo il ritrovamento del corpo da parte di Clèa, si dice da subito estraneo ai fatti. Il romanzo, originariamente ambientato in una piccola cittadina nei pressi di New York, viene qui trasportato nella Francia contemporanea, dove vi è anche un sottile cameo di Simenon: il liceo nel quale il professor Pierre insegna matematica è dedicato proprio a Georges Simenon.

L’orrore del ritrovamento del giovane corpo di Belle, riverso a terra senza vita, sconvolge per sempre l’equilibrio di Pierre e Clèa: indagini, investigatori, interrogatori e ricostruzioni si susseguono per cercare di incastrare Pierre, che di quella sera asserisce però di non ricordare nulla. Ed è proprio a partire da questo momento che la pellicola di Benoît Jacquot sviluppa un crescendo di momenti di tensione: con l’avanzare delle indagini e dello scavo nella vita dei protagonisti, vengono a galla una serie di piccole e grandi ossessioni e di comportamenti bizzarri, che svelano le fragilità dell’animo umano. Avvolto da un’angosciosa cornice omicida, è proprio il tema dell’ossessione a essere centrale; ecco allora che il professor Pierre, che insegna ad adolescenti poco più giovani di Belle, diventa il prototipo del maniaco perfetto, e gli studenti stessi arriveranno a chiamarlo “lo strangolatore”. La lente d’ingrandimento del regista analizza come farebbe un detective tutti i piccoli rituali, le preferenze e i gusti sessuali più morbosi di quello che apparentemente è solo un uomo qualunque sopra i quarant’anni, per capire se come possa aver commesso un simile omicidio. «Belle non era un angelo» viene preannunciato allo spettatore aggiungendo complessità alla storia, quasi a cercare di giustificare le gesta dell’ignoto carnefice. Di Belle scopriamo infatti che già da quando era ragazzina, a soli quindici anni, faceva uso di cocaina e frequentava uomini molto più grandi, tra cui un uomo sposato. Ma come possono queste scelte giustificare chi ha voluto privarla del diritto alla vita? Il vissuto più intimo e privato della ragazza viene spiattellato, quasi a voler trovare una scusante nei suoi gesti per la violenza inferta dall’assassino. Benoît Jacquot mostra sul grande schermo quel giudizio moralistico che riflette una prospettiva maschilista presente anche nell’attualità, fuori dagli schermi, attuando un’ingiusta forma di colpevolizzazione della vittima.

In un crescendo di tracce e di ipotesi, di Belle scopriamo anche che nutriva un’ossessione segreta proprio nei confronti di Pierre, arrivando a fotografarlo segretamente, più e più volte, custodendo gelosamente le fotografie nel suo cellulare, in una sinistra dinamica vittima-carnefice. In questo modo il giallo degli anni Cinquanta di Simenon viene rivoluzionato ulteriormente, trasportando l’intera vicenda ai giorni nostri: i protagonisti della storia usano smartphone e social media, tanto che Belle ha persino un profilo TikTok. Un modo originale di attualizzare la vicenda nella nostra epoca, alla luce dei tanti drammatici casi di femminicidi che riempiono le pagine della cronaca nera: un adattamento che dunque scuote ancora di più lo spettatore, facendogli rivivere nella finzione anche lo stesso morboso attaccamento mediatico verso quella pornografia del dolore alla quale assistiamo continuamente. In questo contesto, la storia di Pierre, Clèa e Belle non è un thriller di impossibile fiction, ma il racconto di una situazione realistica. Nella quale, però, nessuno sembra essere completamente innocente. Quella sera Belle era stata vista in compagnia di un uomo, raccontano alcuni testimoni. Nel suo corpo tracce di molti bicchieri di whisky. Ma poteva davvero essere in compagnia di Pierre? O forse, come spesso accade nella realtà, la macchina mediatica ha bisogno di identificare un colpevole, a tutti i costi. Così Pierre si ritrova completamente solo.

Mentre le certezze vacillano e le possibilità di amplificano, la vicenda prende una piega ancora più inaspettata quando Pierre finisce per avere una relazione segreta con una donna del team investigativo che lo accusa dell’omicidio. Un rapporto passionale, carnale e proibito, nel quale tra i fumi dell’alcol la figura di Belle viene pericolosamente accostata a quella della nuova amante di Pierre che, anziché provare paura, sente una pericolosa attrazione magnetica, che terrà lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine (e che è bene non rivelare in questa sede).
Tra la pagina scritta e la libertà del grande schermo, Il caso Belle Steiner si rivela essere un adattamento originale dell’intuizione di Simenon, un giallo che, come ci ha abituati l’autore belga, lascia più domande che risposte. Benoît Jacquot firma una pellicola tremendamente attuale, in cui lo spettatore è diviso tra il sentimento di colpevolizzazione dell’ipotetico carnefice e una strana forma di comprensione verso un essere umano, che, additato come assassino dalla stampa e dall’opinione pubblica, viene escluso dalla società come un elemento da eliminare ed estirpare. Una forma di comprensione inevitabilmente ambigua e al limite, che sospende il giudizio e mette in discussione il proprio sguardo per indagare l’oscurità dell’animo umano, le sue debolezze, le sue colpe e quelle zone d’ombra che la letteratura e il cinema riescono a raccontare con straordinaria complessità.
In copertina e nell’articolo:
frame tratti dal film Il caso Belle Steiner, Benoît Jacquot