26.06.2025

Schegge, il luminoso ritorno di Giorgio Poi

Il nuovo album del cantautore racconta le sfumature e la luce

È uscito il nuovo album di Giorgio Poi.
A più di tre anni dall’ultimo Gommapiuma, il cantautore è tornato con Schegge e io, non so, ma nell’ascoltarlo, subito, mi è venuto in mente il mio professore del liceo.

Al liceo avevo un professore di matematica e fisica che mi faceva paura, un siciliano trapiantato all’ombra dell’inceneritore di Brescia. Capelli bianchi, accento marcato, nasale e bellissimo e la mano sinistra che spesso si nascondeva dietro la schiena, a giocherellare con il fondo della giacca mentre scriveva alla lavagna.
Mi faceva paura per un motivo: era pieno di passione.
E mi sembrava che si aspettasse, da noi, da me, la stessa passione che lo animava. Io, poi, ero un pessimo studente, figuriamoci. Però a quell’età, da adolescenti, o forse sempre?, ciò che fa paura, un po’ seduce.
Una mattina il professore entra in classe, ci alziamo, appoggia la ventiquattrore di pelle sulla cattedra, ci fa sedere con un cenno e dice: «Chi mi sa dire che cosa sia la luce? Di che cosa è fatta la luce? Avanti, provateci, mica mordo!». 
In quella lezione ci spiegò che la luce è fatta sia di onde, sia di corpuscoli e che, di volta in volta, lo studioso può scegliere quale forma privilegiare per i propri calcoli.
(Mi scuso per qualsiasi inesattezza scientifica io possa aver appena scritto, è solo un lontano ricordo di un pessimo studente, per l’appunto, che serve esclusivamente a questa narrazione)
Quella lezione di fisica mi è rimasta dentro come uno straordinario momento poetico di inspiegabilità. Quanto mi piaceva che fior fior di dottori e professori non riuscissero a risolvere la questione e che, allo stesso tempo, accettassero con calma e garbo la possibile dualità della luce.

giorgio poi

Giorgio Poi. Nuovo album. Schegge.
Ecco, io, quella calma che avevano gli studiosi del mondo intero nel definire con esattezza nebulosa la luce, mi sembra di ritrovarla anche nei margini e nei centri delle canzoni di Giorgio Poi. E mi sembra che ogni volta che Giorgio Poi scrive, suona, registra e pubblica nuovi brani, i continenti delle sue canzoni si illuminino di dettagli ma perdano anche la possibilità di essere definiti con precisione: «Chi mi sa dire che cosa sia la musica di Giorgio Poi? Di che cosa è fatto il nuovo album Schegge? Avanti, provateci, mica mordo!».
La nuova raccolta di inediti arriva dopo anni complessi, ha spiegato lo stesso Poi: la fine di una relazione sentimentale durata dieci anni, la morte improvvisa del padre, il trasloco a Roma. Insomma, un “periodo interessante” di perdita di punti di riferimento.
In giochi di gambe, brano di apertura dell’album, il cantautore, attraverso un ritmo magnetico, introduce l’argomento della separazione opposto al tentativo di rimanere, addii opposti a ultime morbidezze, «bella fortuna schiaffi e carezze, entra un raggio di sole tra le finestre, è mio padre che dice che mi protegge». E tratteggia la delicatezza che talvolta si può nascondere nell’incomunicabilità: «Cerchiamo il mare nelle conchiglie / Vorrei saperti parlare in tutte le lingue / Sussurrare parole nelle bottiglie / Chiudere il tappo per quando vorrai sentirle».
In uomini contro insetti, stupenda, una canzone che sembra andare alla deriva tra «bombe nucleari sugli alveari» e «isole sospese tra il polo sud e il polo nord», Poi costruisce una piramide di synth e bassi, e ora si cade sul versante surreale, ora su quello ironico, ora sul malinconico e amaro, per finire questo racconto urbano sfumando con «le canzoni sono sempre ridicole. Scusate, lo so». Il tutto punteggiato dalla dolcezza di note di glockenspiel (che poi, ‘glockenspiel’, parola bellissima, no?).
Tra questi due brani troviamo nelle tue piscine, un tentativo di imparare a nuotare nel frastuono di una città. La voce si fa metallica e le parole si mutano, quasi con rabbia: «Tutta la città ha iniziato a tossire / Tra un po′ / Sarà che tutti hanno qualcosa da dire / Io no».

Raccontare le città, il caos, oggi, Giorgio Poi lo fa continuamente. Lo fa dal primo album, dal brano Tubature che si chiudeva con un semplice «hai visto com’è strana la città». Un caos che ognuno vive come può. Io, delle volte, esco dall’ufficio ed entro direttamente al cinema. Il cinema nel tardo pomeriggio, fuori la città che urla, tu dentro al buio, un lusso. Qualche giorno fa davano L’infinito, di e con Umberto Contarello. In una delle scene più argute, Umberto sta discutendo con un produttore cinematografico di un nuovo film. Il produttore chiude il confronto con un “Chi dorme non piglia pesci”. Umberto, sfiancato, ribatte “Nooo! Però anche le metafore muoiono ad un certo punto, come moriamo noi”. Le metafore fiacche, troppo utilizzate, quanta tristezza, quanta morte.

giorgio poi

Giorgio Poi. Nuovo album. Le immagini.
Da sempre i suoi testi riescono ad avere una freschezza grazie anche (e non solo) ai giochi di parole, alle similitudini, ai rimandi tra immagini apparentemente lontanissime: «Erica, cuore ad elica, non parlare / si sente il rumore» cantava qualche anno fa. E anche in questo album la penna di Giorgio Poi continua a tracciare sentieri tra il surreale e l’intimo, mantenendo una leggerezza che non è superficialità, ma delicatezza di tocco. Con musiche tra il nostalgico, il cinematografico e il funk che portano l’ascoltatore in un’astrattezza parallela dove viene cullato o ferito tra i pensieri e i ricordi.
Così cosa resta alla fine di un grande amore? Nel brano non c’è vita sopra i 3000 kelvin, il mio preferito, Poi suggerisce la risposta con grazia obliqua: «Non c’è vita sopra i 3000 Kelvin / Ma facce pallide come fantasmi (…) Nel buio sotto le palpebre / Ti tengo sempre vicino a me / Lasciamo tutto così com′è». 
Per poi esplodere nella luce ritmica di les jeux sont faits, una descrizione di ciò che cade sulla terra quando esplode un amore sopra le teste: «Le nostre storie sono piccole, / e alcune stelle nel cielo non esistono più. (…) Ci siamo spenti davvero io e te / E adesso siamo cenere». Atmosfere piene di energia, create anche grazie al grande amico di Poi, Laurent Brancowitz dei Phoenix, che ha “supervisionato” l’album.


Dopo l’esplosione, dopo la cenere, ecco la quiete.
È il turno del brano strumentale che dà il nome all’album, ormai una tradizione, una scheggia melodica che segna un prima e un dopo. Il dopo è un terzetto di canzoni che ricordano un tramonto visto da un’autostrada di settembre. Il ritmo si fa più dolce e calmo.
tutta la terra finisce in mare ha un’intro jazz che riprende una delle anime di Giorgio Poi e che brilla silenziosamente nel verso «ma la luce si accenderà nel buio più cocciuto, sotto i raggi di un ombrello anche se non ha piovuto». Di nuovo, la luce
«È così difficile descrivere la luce come parola» – diceva Daniele Del Giudice – «È sempre troppo forte, non si sa mai bene da dove prenderla. Uno dice ‘Luce’ e qualcun altro pensa subito a una cosa fuori misura, fuori del tempo, ovunque, nello spazio non circoscritto e senza solidità. Ci vogliono così tanti aggettivi per la luce. Potrei dire luce pallida, luce meridiana, luce fredda, luce struggente. Ma la luce resta sempre uguale a sé stessa. Cambiano soltanto i sentimenti».

Giorgio Poi mi sembra, magari sbaglio, ma mi sembra un ottimo cercatore di aggettivi per la luce. Del Giudice voleva scrivere un atlante della luce, diceva, Giorgio Poi mi pare che, album dopo album, stia scrivendo il suo, di atlante, la sua, di luce, onda o corpuscolo che sia. Con la consapevolezza di dover perdere sempre qualcosa, di non avere il superpotere di tenere insieme tutto, ma solo la pazienza del lasciar andare alcuni pezzi. Schegge, appunto. E forse non è un caso che l’album sia interamente scritto e suonato dallo stesso artista, nel suo studio, nel suo punto di mondo dove può tentare di trattenere quel che preferisce. Dove può scegliere, di volta in volta, quale forma di canzone-luce sia più utile al calcolo delle sue emozioni.

L’indie è morto quando qualcuno ha deciso di farlo diventare un genere, si dice. L’indie, forse, come in questo caso, torna a vivere quando un artista si pone davanti all’oggetto canzone accettandone la natura esplorativa e i rischi, anche nella solitudine che non è chiusura, ma possibile punto di partenza di un discorso pubblico.
Le ultime due canzoni, un aggettivo, un verbo, una parola e dalle barche ai transatlantici, chiudono l’album con la giusta dose di malinconia, ricordandoci che siamo «soli sulla terra nella gara dei confini». Già, i confini, i margini, le definizioni.

«Di che cosa è fatta la luce? Onde? Corpuscoli?» «E se fossero schegge, caro professore?»





Nel testo, foto di Giorgio Poi da ondarock.it

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