«Scrivendosi, la donna farà ritorno a quel corpo che le è stato più che confiscato» lo affermava Hélène Cixous nel saggio femminista Il riso della Medusa (1975) ed è una rivendicazione oggi più attuale che mai, dal momento che il corpo della donna è divenuto campo di battaglia nella lotta contro la violenza di genere e il femminicidio. Si parla molto di casi di cronaca in cui l’aggressione è esplicita e spesso sfocia nell’abuso o nello stupro, tuttavia c’è ancora molta reticenza nei confronti di una violenza più subdola, meno esibita, che è comunque presente e spesso agisce in sordina consumandosi nel non detto. Non si affronta mai direttamente la questione del consenso sessuale e la maniera in cui si determina.
È il tema al centro del nuovo libro di Sara Durantini, Questo mio corpo (Dalia Edizioni, 2025), in cui si narra una storia di rivendicazione, di riappropriazione di sé. Dopo Pampaluna (Dalia Edizioni, 2024), l’autrice torna a raccontare la crescita e la formazione di una giovane donna a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila. Siamo tra il 2001 e il 2005, anni di trasformazioni epocali, l’indignazione dell’opinione pubblica divampa con i fatti del G8 di Genova e il mondo occidentale scopre il terrorismo con gli attentati dell’11 settembre, mentre altre tragiche vicende, come l’omicidio di Desirée Piovanelli per mano del branco, passano quasi sotto silenzio perché «non c’erano le parole per dirlo». Ora la protagonista è cresciuta, sperimenta nuovi contesti e relazioni e, suo malgrado, si trova invischiata in rapporti tossici, asimmetrici, in cui spesso la volontà dell’altro si afferma come dominazione. In una narrazione sdoppiata – in cui l’autrice guarda a ritroso la ragazza che è stata scrivendone in terza persona «La vedo. È davanti a me, la ragazza col trench» – si affronta il tema del desiderio, che sbaraglia tutto e tutto confonde, la difficoltà di stabilire i confini, i limiti e di comprendere dove finisce l’amore e inizia la sottomissione nella grammatica disarticolata dei sentimenti.

In queste pagine viene affrontato un argomento complesso come «la manipolazione travestita da amore» e la dipendenza affettiva, sulla stessa lunghezza d’onda di Memoria di ragazza di Annie Ernaux. Viene ribadito il concetto di «vergogna femminile» nel trattare l’umiliazione del corpo della donna e la fine dell’innocenza, il passaggio violento e inevitabile dalla giovinezza all’età adulta, per dirla con Simone de Beauvoir: «La vergogna di essere un puro oggetto di desiderio». La riflessione che attraversa Questo mio corpo si inserisce nel dibattito contemporaneo: è difficile stabilire quando il consenso è determinato da un “sì” autentico, non inficiato da ricatti impliciti, aspettative sociali o paure, come spesso accade. «Ho dato il mio consenso senza sapere a cosa avessi acconsentito» scrive Sara Durantini «senza sapere che, una volta superato quel confine tra consenso e sottomissione, sarei tornata per sempre nei luoghi di quella sofferenza». Nonostante la proposta avanzata dalla deputata Laura Boldrini il 7 febbraio 2024, in Italia il principio del consenso sessuale non è ancora riconosciuto a livello normativo, non c’è nessuna legge a tutelarlo. Ma le cose stanno cambiando. Ne abbiamo parlato in questa intervista.
In Pampaluna narravi il passaggio dall’essere bambina al diventare ragazza, in Questo mio corpo invece tracci la traiettoria successiva: da ragazza a donna. La conoscenza di sé, per una donna, passa inevitabilmente attraverso il corpo, la sua metamorfosi?
La metamorfosi del corpo incide molto nel passaggio tra le varie età della donna. Perché, almeno nella mia esperienza, la conoscenza del mondo è passata anche attraverso il corpo. In Pampaluna affrontavo il discorso della parola, del linguaggio: la protagonista bambina vive il disagio di non riuscire a comunicare e, di conseguenza, l’essere invisibile. In quel libro scrivevo di essere «un corpo senza storia». Qui invece abbiamo un’altra fase della vita, che non è contigua perché nel mezzo sono passati anni, però anche in questo caso la conoscenza dell’altro, del mondo esterno, ma pure di sé stessi, passa attraverso il corpo, come accade a tutte le ragazze durante l’adolescenza. Ed è quanto sperimenta anche la protagonista che si trova a confrontarsi con il fatto di “essere corpo” e con il tema del desiderio. Il modo che ha di entrare in contatto con l’altro è corporeo. Il corpo, in un certo senso, diventa depositario di tutte le esperienze. Nelle pagine di questo libro non ne parlo, ma ora penso alla gravidanza, i nove mesi in cui aspettavo mio figlio e anche successivamente, quello è stato davvero per me un momento di transizione fortissima. Spesso dico che quando è nato mio figlio sono rinata pure io, perché dentro di me c’è stata una trasformazione anche a livello mentale. Quella trasformazione, però, è passata attraverso il corpo.
Penso che tutte le ragazze durante l’adolescenza abbiano la necessità di “sentirsi viste” ed è una condizione che fa sentire esposte, vulnerabili. Come si può conciliare questa necessità di riconoscimento altrui con la consapevolezza di sé?
Credo sia impossibile scindere del tutto corpo e mente, per una donna in particolar modo. È un percorso prima di tutto di conoscenza di se stessi. Una conoscenza che passa per l’amore di sé, una cosa su cui forse non ci si sofferma mai abbastanza. Se noi non ci guardiamo, non ci amiamo, non troveremo mai una diretta corrispondenza nell’altro, ma andremo sempre a cercare quello che ci manca, che a volte non è mai quello di cui davvero abbiamo bisogno. Mi viene da pensare a Melissa Febos che nel suo libro Girlhood, edito da nottetempo, porta questa immagine molto potente: il tentativo di riempire i buchi, i suoi vuoti, con lo sguardo dell’altro, con le mani dell’altro, col corpo dell’altro, per poi scoprire che non è questo ciò che la completa. Credo che sia una condizione di partenza comune a molte ragazze.
I personaggi maschili del libro sono negativi, esercitano una sorta di potere sulla protagonista, una forma di sopraffazione. C’è di base una relazione asimmetrica determinata da una disparità sociale e, almeno nel primo caso, da una disparità anagrafica. A un certo punto parli di «momenti di sottomissione», ma credo che allora non ne avessi piena coscienza. Quando hai acquisito questa consapevolezza?
È soltanto adesso che riesco a riconoscere che erano momenti di sottomissione, lo posso dire a posteriori. In quel momento, anche se percepivo che c’era qualcosa di sbagliato in determinati gesti o in determinate parole, però non riuscivo a identificarlo come tale. Per acquisire questa consapevolezza sono state importantissime delle letture fatte durante il periodo universitario, libri scritti da donne che hanno scardinato la mia visione del reale e hanno iniziato a mettere dei punti di domanda su quelle che pensavo essere delle certezze. Mi sono venuti in aiuto anche gli studi di genere che hanno iniziato a diffondersi timidamente in quel periodo: ricordo ancora una conferenza nel 2004, tenutasi a Milano, sulla scrittura femminile. Era un argomento nuovo. Oggi si parla molto di concetti quali relazioni tossiche, amore tossico, di consenso, quindi c’è tutta una terminologia che identifica dei modi di relazionarsi; ma all’epoca non esistevano nemmeno le parole per dirlo, anzi, molto spesso si giustificavano determinati comportamenti maschili. Penso a certe frasi “è geloso perché ti ama”, che purtroppo vengono pronunciate ancora adesso. Ciò che ha inciso sulla mia consapevolezza di donna è stato sicuramente questo percorso e anche la volontà di approfondire certi studi e il lavoro di alcune scrittrici e filosofe femministe che poi mi hanno accompagnata sino a oggi.

Nella storia un faro guida è rappresentato da Anne-Marie, un’altra studentessa universitaria che viene in soccorso della protagonista con dei libri, ma anche con la sua presenza. Credo ci sia molto di oscuro, di ambiguo, nella loro amicizia. Come definiresti il loro legame?
Un legame che probabilmente non ha neanche avuto il tempo di svilupparsi come avrebbe dovuto o potuto. Nel personaggio di Anne-Marie in realtà ho trasfigurato una situazione. Il suo nome, tra l’altro, è l’unico che mantengo per esteso, perché i nomi degli altri personaggi sono abbreviati e scritti solo con l’iniziale puntata. È un omaggio a Anne Marie Stretter di Duras. Mi ha sempre affascinato la figura di questa donna che ritorna in molte sue opere. Nelle interviste Duras racconta spesso che la vedeva passare in auto quando era bambina e per lei Anne-Marie diventa un simbolo di femminilità, anche un po’ un archetipo di tutto quello che non è la madre. Nella realtà il personaggio di Anne-Marie è esistito per me in due forme diverse, in due diverse persone, che tuttavia avevano caratteristiche molto simili e, mi rendo conto, nel romanzo ho trasfigurato il legame con entrambe.
Ci sono delle cose che non dici, che non definisci, sia nel legame tra la protagonista e Anne-Marie che in altre situazioni sui rapporti con D. e F. Scrivi: «L’omissione e la cancellazione rappresentavano gli elementi di un’opera silenziosa costruita con le mie stesse mani». Quanto conta il “non detto” nella tua scrittura?
L’omissione è forse una qualità della mia scrittura, ma anche della mia persona – tendo per carattere a sottrarmi, a non dire. In questo caso, nel rapporto con Anne-Marie, credo che l’omissione fosse necessaria. Non specificare alcune cose, a volte, è un modo per lasciare una porta aperta. Non è sempre necessario definire, penso che nelle pagine si avverta un sentimento che comunque è nato e, in qualche modo, resta, anche se indefinito, inespresso.
C’è una frase, una sorta di ritornello ripetuto più volte nel corso del libro: «Hai detto no? Lo hai respinto? Lo sai che un bacio equivale a dire: ok, fai come vuoi?». Credo sia un’accusa implicita che si sono sentite rivolgere molte donne. Il tema del consenso è spinoso, viene spesso male interpretato. È ancora in atto un processo di colpevolizzazione della vittima, secondo te?
Quel ritornello è un po’ la mia voce interiore che, in fondo, accusa quella ragazza e in qualche modo la ritiene responsabile. È come se io non fossi riuscita del tutto a perdonarla per la sua ingenuità. Quelle frasi sono anche quelle che la società ti incolla addosso, le domande che spesso la gente ti rivolge e che ti feriscono. Penso a quando si accusa la donna per come era vestita o per il suo atteggiamento, è una dinamica non ancora superata ed è inevitabile, poi, che la vittima rivolga quelle stesse domande a sé stessa colpevolizzandosi. Qui entra in gioco anche il fattore legislativo. La proposta di legge Boldrini sul consenso è stata derisa da una parte dell’opposizione. Ed è un fatto gravissimo, perché non si accendono i riflettori su un problema che c’è ed esiste. Continuo a leggere, anche sui social, dei commenti agghiaccianti sotto articoli di cronaca che parlano di casi di stupro: si continua a colpevolizzare la vittima e questo viene fatto indiscriminatamente da uomini e da donne di ogni età e classe sociale, dunque il problema è diventato trasversale.
Come accaduto in Pampaluna, anche in questo libro ritorna l’intersezione tra storia privata e storia collettiva. Citi il processo del massacro del Circeo, nel 1977, in cui viene pronunciata una frase tremenda dall’avvocato Angelo Palmieri: «Se le ragazze fossero rimaste sedute accanto al focolare, dove era il loro posto (…) non sarebbe accaduto nulla». Quanto sono cambiate le cose da allora?
Non siamo lontani dall’arringa pronunciata durante quel processo. Ancora adesso vengono fatte simili affermazioni e, spesso, il corpo delle donne è al centro del dibattito. Il tema del consenso oggi è diventato un problema culturale, che deve necessariamente coinvolgere le scuole, l’educazione, l’opinione pubblica. I bambini, i ragazzi, devono essere educati all’affettività. Io, da madre di un figlio maschio, sto cercando di fare del mio meglio, insieme a mio marito, perché è un lavoro congiunto. Fare i genitori è un lavoro difficilissimo, però, ecco, cerchiamo di trasmettergli quelli che sono i nostri valori, il rispetto della figura della donna e anche come reagire di fronte a un rifiuto.
Un ruolo salvifico nel libro è rappresentato da altre donne: l’amica I., Anne-Marie Von Roten, la professoressa di letteratura francese. Sono loro che portano poi la protagonista a scrivere. Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé parlava di «sororità», come di una forma di solidarietà e di condivisione. Qual è il valore della sorellanza e quanto può essere importante?
La sorellanza l’ho conosciuta tardi, come concetto ma anche come sentimento. L’ho scoperta quando ho incontrato persone, come Anne-Marie appunto, che mi riconoscevano, che mi vedevano, che mi ascoltavano, al di là di quella che poteva essere un’attrazione o un sentimento. In quei momenti mi sentivo me stessa, non avevo bisogno di indossare delle maschere. L’ho conosciuta tardi perché non mi è mai stata insegnata prima. Se cresci in una società in cui non c’è la sorellanza, ma neanche la fratellanza, ma solo cameratismo, va da sé che tu nel momento in cui incontri quel sentimento non hai neanche le parole per definirlo. E se non hai le parole per definirlo non lo conosci, rischia addirittura di passare in sordina, di non esistere. Per fortuna, ecco, io la sorellanza l’ho conosciuta. E fortunatamente oggi se ne parla, si organizzano incontri, convegni, per fare rete tra donne; ma vent’anni fa tutto questo non esisteva, soprattutto non nell’ambiente e nel contesto di cui parlo del libro.
Il punto di approdo è «essere per se stessi», una frase da manuale di psicologia. Scrivi: «Forse la sfida più grande è proprio questa: imparare a esistere senza bisogno di conferme, imparare a riconoscersi senza dipendere dallo sguardo altrui». Ma come ci si arriva? E, soprattutto, finisce mai questa sfida?
Ho acquisito questa consapevolezza, ma poi è stato difficilissimo mantenerla. Diciamo che nei mesi successivi non sono stata così ferma su quel proposito; però in quel momento ho piantato un seme dentro di me che poi, piano piano, è cresciuto. Di fatto è un continuo percorso. Secondo me non ci si libera mai, se non con grande fatica, da certi vuoti, da certe mancanze. Credo che quello che tu vivi nell’infanzia resti lì per tutta la vita, come una sorta di trauma originario con cui ti ritrovi a fare i conti. Ce lo ha insegnato anche Cesare Pavese, un autore che io amo molto, in fondo lui in tutti i suoi libri narra sempre la stessa storia, la stessa mancanza.

Una scrittrice che ti ha fortemente influenzato è Annie Ernaux, cui hai dedicato la biografia Annie Ernaux. Ritratto di una vita. Racconti di averla scoperta leggendo Non sono più uscita dalla mia notte, che ti fu regalato dalla professoressa di francese con la dedica: «La sua scrittura ti restituirà a te stessa». Ma qual è il libro di Ernaux che ti ha davvero “restituito a te stessa”?
Non ce n’è soltanto uno. Sicuramente Non sono più uscita dalla mia notte, che è stato il mio primo incontro con Ernaux, perché racconta il rapporto con la madre e la malattia, è un libro in cui sento che continuerò a cercare delle risposte. Poi Passione semplice che mi riporta a una relazione che ho vissuto proprio nei momenti in cui lo leggevo e, ancora oggi, mi rende impossibile dissociare le azioni della protagonista da quelle compiute da me stessa – ma credo anche da tante altre donne, oltre a me. Memoria di ragazza è il libro che non solo mi riporta alle vicende che racconto in Questo mio corpo, ma anche a delle esperienze drammatiche che ho vissuto tra i tredici e i diciotto anni. Annie Ernaux è riuscita davvero ad aprire delle porte dentro di me e a darmi una chiave di lettura sulla scrittura autobiografica, che poi è lo stile che ho sempre perseguito. In fondo è ciò che mi affascina anche in Marguerite Duras, il fatto di riscrivere la stessa storia più volte; pure Duras ritorna sempre su dei vuoti che ha vissuto, su delle mancanze, che cerca di colmare attraverso la scrittura.
Credo che Questo mio corpo vada letto nelle scuole. È un libro che potrebbe essere utile nel dare ai ragazzi un’educazione affettiva.
In effetti il libro si presta a essere letto nelle scuole. Molte professoresse che sono venute alle presentazioni, magari per puro caso, hanno poi manifestato l’intenzione di farlo leggere ai loro studenti. E anche alcune studentesse mi hanno espresso lo stesso desiderio, dicendo di essersi riconosciute nelle vicende vissute dalla protagonista. Questo non può che rendermi felice perché comunque ho la consapevolezza di mandare un messaggio, è un po’ come passare il testimone.
C’è un passaggio di testimone anche nella scrittura. Nel libro nomini come tue maestre tre grandi autrici: Ernaux, Duras, Yourcenar. È vero che esiste una differenza di sguardo, di prospettiva, tra scrittori e scrittrici. Per le donne i sentimenti hanno sostanza. Qual è oggi l’importanza della scrittura femminile, secondo te?
Per me la scrittura femminile è fondamentale, perché ti riporta al mondo. Adesso sto rileggendo Il riso della Medusa, quindi ne sono un po’influenzata, ti cito Hélène Cixous: «La donna si deve scrivere, per mettersi nella storia, per mettersi nel mondo». Oggi quando si parla di emancipazione spesso si sentono dire queste frasi: «Ormai avete ottenuto tutto quello che c’era da ottenere, che altro volete?». Ecco, nel momento in cui si sentono queste domande si comprende che c’è ancora tantissima strada da fare, anche solo per uscire da questo sguardo maschile, per sdoganarsi, per acquisire una nuova consapevolezza. Mi piacerebbe parlare non tanto di uguaglianza, ma di pluralità, perché è vero che nelle differenze noi ci arricchiamo. È giusto quindi sottolineare anche le reciproche differenze, tra donne e uomini, che però ci valorizzano e ci rendono speciali agli occhi l’uno dell’altra. Il riconoscimento delle differenze porta al rispetto, a una conoscenza più approfondita e, forse, anche a un bene più profondo.
Immagine di copertina: foto di Alessandro Ossidi