Oltre la Soglia

Bertoldo villano, Bertoldo sovrano. La maschera del Carnevale Storico Persicetano



Nell’anno 1550, a San Giovanni in Persiceto, nella bassa bolognese, veniva al mondo Giulio Cesare Croce: scrittore, poeta, commediografo, enigmista e cantastorie. Veniva al mondo in una famiglia di fabbri – padre e zio – dai quali ricevette sia l’apprendistato al lavoro manuale, sia la benedizione di un finanziamento all’istruzione che però, visti gli scarsi risultati, abbandonò in favore dell’attività artigiana. Questo almeno fin quando non scoprì la vocazione di poeta campestre prima, e poeta di piazza poi, girovagando per le strade di Bologna con un violino (da cui il soprannome Giulio Cesare della Lira) per oltre mezzo secolo, componendo e vendendo testi (stampati in opuscoli) fino ai primi anni del Seicento – morì in povertà nel 1609, dopo aver avuto due mogli e quattordici figli.
Al Croce piaceva pensarsi nato sotto l’influsso benefico di una stella, che gli fece la grazia di una «vena naturale, / come si vede, non alta e sublime, / ma piana e dolce, al basso genio uguale». Imbevuto di cultura folclorica, che assorbiva direttamente dal suo ambiente – tanto quello rurale quanto quello urbano – il Croce visse alla giornata scrivendo per lo più versi rallegrati da una sana festosità popolare, intrecciando letteratura dialettale bolognese (di cui è considerato il padre) con frasi dotte in latino, facendosi amare tanto dal volgo quanto dai potenti della città, di cui frequentava le corti – sebbene nessun mecenate lo accolse mai permanentemente.

La cifra stilistica del Croce è tutta giocata sul codice del rovesciamento, sulle rappresentazioni satiriche del mondo e della vita: si tratta – come disse a riguardo il più importante studioso dell’opera crocesca, lo storico della cultura e filologo Piero Camporesi, nel saggio La maschera di Bertoldo (Il Saggiatore) – di un mondo alla rovescia che «è tutto un intersecarsi di contrasti e d’opposizioni», in cui «la vita si svolge in un clima di conflittualità permanente». Mondo come gabbia di matti, di cui il Croce stesso si compiace di far parte, creando per sé l’immagine di poeta giocoso e burlesco: una maschera, dietro alla quale si cela un «poeta che ascolta, rivive e rifonde tutte le voci della tradizione popolare antica e moderna»; un poeta che «configura la storia e lo svolgimento della realtà della vita sotto l’angolatura, semplice e manichea, dell’opposizione continua di tutto ciò che sulla terra vive e vuole vivere».

Fattezze di Bertoldo
Tecnica mista – 2001 – Sara Paioncini

Coi suoi testi intessuti sulla retorica del nonsense, sugli ossimori, sull’uso rituale del riso e del pianto, su formule magiche costruite di opposizioni e irrorate di rovesciamento, il Croce è un esorcista di piazza che intona e rappresenta scongiuri contro i mali della società. In sintesi, è poeta del carnevalesco. Di più: è primo attore della scena carnevalesca – mistica ed evocativa è a tal proposito la sua nascita in dì di Carnevale. E del carnevalesco il Croce, oltre che un cantore, è anche un medium che instilla nel corpo di Bertoldo – il suo più celebre personaggio – lo spirito del Carnevale stesso. Rielaborando il dialogo di origine medioevale noto come Dialogus Salomonis et Marcolphi, e mescolandovi fonti orali di natura leggendaria legate al paganesimo misterico del mondo agreste, nel 1606 pubblica così la prima edizione de Le sottilissime astutie di Bertoldo (Pendragon), «una delle poche creazioni autenticamente popolari a cui sia stato consentito di trasformarsi in libro», secondo il pedagogista e scrittore Antonio Faeti. Dell’originale non rimane oggi nessuna copia: la ristampa arrivata ai giorni nostri – riveduta e ampliata – è datata 1608.

In un’introduzione che ne fece lo scrittore e storico della letteratura Giampaolo Dossena, viene ricordato come «il personaggio di Bertoldo è nella lingua italiana l’esempio tipico, eponimo, proverbiale, del contadino modesto sobrio semplice astuto (forse, se vogliamo, anche saggio e dignitoso), che suscita pietà simpatia ammirazione». Ma è di nuovo Camporesi a darne la descrizione più variopinta, e meglio in grado di cogliere tutte le sfumature folcloriche che Bertoldo incorpora: «eroe inferico e carnevalesco, burattino e veggente, oracolo e matto villano, re della tautologia assurda e del nonsense sapiente, animale parlante e indovino insolente e malizioso, inferiore che umilia i superiori, […] maschera satirica di villoso demone campestre e trigozzuto stregone conoscitore dei segreti dell’universo alla rovescia».

Elide Casali, storica della letteratura, già allieva di Camporesi, nell’introduzione a La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, sottolinea come «il rovesciamento costituisce una regola fondamentale» della festività carnevalesca, la quale «sancisce temporaneamente e ciclicamente il ribaltamento dei ruoli sociali». Ma, aggiunge, è anche una regola fondamentale della «tradizione magica folclorica, dove il significato del binomio dritto/rovescio è alla base di ritualità quotidiane, di formule di scongiuro dei mali, di pratiche propiziatorie». Dalla fusione di questi elementi – i quali costituiscono in realtà due facce di una stessa medaglia atavica e ancestrale – la comunità carnevalesca persicetana assume il Bertoldo del Croce come maschera del Carnevale locale. E proprio in ossequio alla sovversione dello status quo, in una sorta di metempsicosi laica e farsesca, a Persiceto il rozzo villano si eleva di ceto, reincarnandosi nel ruolo opposto: Re Bertoldo, sovrano del Carnevale.

Bertoldo
Bertoldo e il Re
Tempere acriliche e matite colorate – 2001 – Andrea Rivola

Tuttavia, al Carnevale Storico Persicetano, Bertoldo cambia habitus – più paternalistico, bonario e borghese – ma non cambia abitudine. Sotto alle vesti regali permane, come nel personaggio del Croce, un cervello fino che sprigiona una «bizzarra e consolidata sapienza dal basso […] frutto di autenticità» – per dirla sempre con le parole di Faeti. Una sapienza «che non dà scampo a nessuno, che stuzzica i potenti, che rovescia le consuetudini, che non ha rispetto per le mille e mille imposizioni nate dalla vana prepotenza dei cortigiani». Infatti, a Persiceto, i corsi mascherati vengono inaugurati con la lettura, da parte del monarca e della sua famiglia, del Discorso della Corona. Si tratta di una zirudèla, componimento dialettale in versi ottonari in rima baciata, redatta da Roberto Serra, uno dei massimi esperti di dialetto bolognese e delle sue varianti di provincia. In pieno spirito crocesco, lo scopo del testo, comune anche ad altre tradizioni carnevalesche, è quello di ripercorre i fatti salienti dell’anno appena trascorso, commentandoli con satira pungente e irriverente, sbeffeggiando il potere e chi lo esercita.

Tutto questo non è altro che il preludio, l’anticipazione verbale e liturgica – nel senso etimologico di “servizio pubblico” che Bertoldo sovrano rende ai suoi sudditi – del rituale performativo dello Spillo (al Spéll in lingua indigena), vera peculiarità dell’intera manifestazione carnevalesca persicetana, dove i carri allegorici eseguono una trasformazione della loro struttura a fini narrativi, mediante complessi meccanismi scenici. Si tratta di una forma d’arte ibrida e poliedrica, crocevia di molteplici discipline le quali, fondendosi, concorrono a una metamorfosi le cui semantiche non si esauriscono nella dimensione plastica e visuale – il carro entra in Piazza del Popolo chiuso come un bocciolo e ne esce aperto come un fiore – ma implicano una pluralità di risvolti simbolici, sociali e culturali.

Il rituale carnevalesco dello Spillo, infatti, non deve essere pensato come un evento casuale ed estemporaneo, né va inteso come momento accessorio in una sfilata di carri progettati per intrattenere il pubblico mentre sfilano lungo il corso. Lo Spillo è il momento culmine di un processo ciclico e ricorsivo, una gestazione premeditata e corale che annualmente porta la comunità dei praticanti di questa tradizione ad associarsi e cooperare per plasmare la materia piegandola a quelle che, sempre secondo Camporesi, sono le vicende cosmiche del Carnevale – la rivitalizzazione, il tema «nascita-morte-risurrezione», punto centrale del simbolismo carnevalesco. La trasformazione fisica del carro, il suo mutare da crisalide a farfalla, è in realtà soltanto un epifenomeno rispetto alla mutazione sociologica e psicologica di chi pratica e di chi assiste al rito – ma nondimeno, è la sintesi più chiara, visibile, immediatamente fruibile e godibile dell’incarnazione dello spirito del Bertoldo crocesco nello Spillo stesso, dove l’essenza segreta dei carri è celata dalla loro apparenza esteriore, fino a che non si aprono disvelandosi: «[…] Paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell’animo, si può dire ch’ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta ed oro».

Bertoldo
Astuzia di Bertoldo per non inchinarsi al Re
Inchiostro e penna a sfera – 2001 – Roberta Sironi

Ma la trama e l’ordito di cui sono intessuti il “sacco” e la “fodera” dei carri allegorici vanno ricercati nei filamenti del tessuto sociale di cui è composta la comunità carnevalesca persicetana. Una comunità tribalizzata, fatta di gruppi mascherati impegnati in una perenne e campanilistica conflittualità, contraltare fittizio e pretestuoso di una ben più reale solidarietà rurale e contadina, che nutre il capitale sociale e culturale di un territorio conteso fra la liquidità della modernità e la solidità della tradizione. La comunità dello Spillo libera potenzialità latenti e invita all’apertura verso mondi possibili tanto chi lo Spillo lo pratica quanto chi lo osserva. Il rito possiede infatti una funzione pedagogica e catartica, insita in quella caratterista millenaria del tutto umana di raccontar storie.
Nelle sue interpretazioni più recenti lo Spillo si presenta come carnevale-teatro – il che non deve affatto sorprendere, se solo pensiamo alla lezione del folclorista e storico delle tradizioni Paolo Toschi, e al suo Le origini del teatro italiano (Bollati Boringhieri), dove di entrambi i fenomeni vengono messe in luce le analogie e la comune matrice ritualistico-religiosa. Questa soluzione drammaturgica viene talvolta espressa in maniera elementare – quando il carro è inteso come un palcoscenico, relegato a scenografia, su cui recitano attori in maschera – e talvolta in maniera elaborata – quando è la piazza stessa a essere intesa come un palcoscenico, e il carro, personificando lo spirito crocesco, si fa attore, macchina viva e narrante. O, ancora meglio, si fa cantastorie, cantimbanco, manifestando quella vena narrativa tipica del Croce che, nel suo teatro dialettale imperniato sul ridere e deridere, sintetizza tradizione carnevalesca e cultura contadina.

Lo Spéll fa del Carnevale Storico Persicetano un unicum all’interno del panorama nazionale e internazionale, come si evince dalla sua candidatura a Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO. Molteplici etimologie sono state proposte per spiegare l’origine del termine. Si va dalle connessioni con la parola italiana “spillo” per alludere a una satira pungente, a quelle col verbo “spillare”, cioè forare una botte e farne zampillare il liquido contenuto, rimandando così al concetto di sorpresa, il coup de théâtre del carro che si trasforma. Molto autorevole è senz’altro il Vocabolario bolognese italiano di Carolina Coronedi Berti, che definisce la voce spel col concetto di trasfigurazione, l’atto di «far mutare effige e figura; e lo diciamo di que’ giuochi che si fanno ne’ spettacoli. Diciamo che una cosa l’ha fat un spel, quando, avendola sott’occhio, a un tratto non la vediamo più».

Bertoldo
Sagra di Re Bertoldo
Tavoletta grafica e penna digitale – 2012 – Denis Sentimenti

Ma l’ipotesi più suggestiva è sicuramente quella di Francesco Benozzo, che da un punto di vista etnofilologico ne individua connessioni arcaiche con le lingue germaniche – Persiceto, fortezza bizantina sotto l’Esarcato di Ravenna, viene conquistata intorno al 727 da Liutprando, re del Regnum Langobardorum – dove spell significa incantesimo, secondo la radice *SPELLAM legata all’indoeuropeo *SPEL – recitare, incantare. La parola Spéll apparirebbe così come un relitto linguistico, folclorico, gestuale, che persiste nel dialetto persicetano collocando i carri allegorici del suo Carnevale nel contesto delle navi magiche della mitologia germanica: navi dei folli e dei morti, connesse con le terre dell’Oltre e la sovversione/distruzione del mondo, di cui la trasformazione del carro per mezzo dello Spillo/incantesimo sarebbe un’esorcizzazione narrativa. Se fosse quindi vero che «dalle comunità longobarde» abbiamo ereditato anche «un sistema di credenze, […] un modo di guardare e di immaginare il mondo, […] una possibilità di evocarne e narrarne gli aspetti immateriali, spaventosi, perturbanti», e se fosse vero che a quelle genti «dobbiamo parte della nostra percezione della complessità, delle visioni che agitano i nostri sogni, dei racconti attraverso cui pensiamo, riconosciamo e allarghiamo il nostro immaginario», la rilevanza demoetnoantropologica del Carnevale Storico Persicetano acquisirebbe un ulteriore strato di spessore e complessità. Strato da aggiungere a quelli che già possiede – il polimorfismo artistico dei carri, dove si fondono avanguardia e tradizione; il dinamismo scenico e meccanico delle loro trasformazioni, eredità della maestria tecnica che germoglia sul territorio dalla fine dell’Ottocento; il solidarismo dei cantieri dove i carri vengono costruiti, fucine d’inclusione sociale e di scambio intergenerazionale – tenuti assieme dal collante narrativo del Croce e dalla maschera di Bertoldo, che del carnevalesco in generale – così come appare nell’immaginario collettivo – e del carnevalesco in particolare – l’oggetto culturale persicetano denominato Spillo – costituiscono le fondamenta letterarie.


Bibliografia di consultazione

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Casali E. (2002), “Introduzione”, in Casali E., Capaci B. (eds), La festa del mondo rovesciato. Giulio Cesare Croce e il carnevalesco, il Mulino, Bologna.

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Lodoli E., Maggioni F. (2009), Giulio Cesare dalla Croce. L’arguto bolognese, Bononia University Press, Bologna.

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Tampellini A. (2016), “Bertoldo re del Carnevale e lo ‘spillo’”, in Pancaldi P., Tampellini A. (eds), Tradizioni, credenze, superstizioni fra Bologna e Modena. Vol. I. Santi, fate e fantasmi, Marefosca Edizioni, San Giovanni in Persiceto.

Toschi P. (1999), Le origini del teatro italiano, Bollati Boringhieri Editore, Torino.


In copertina: Bertoldo e Bertoldino nel Sogno dell’Inconscio Collettivo (dettaglio) acrilico, pigmenti in polvere e collage su tela in lino 2022Matteo Brici
Tutte le illustrazioni sono su gentile concessione del Comune di San Giovanni in Persiceto e dell’Associazione Carnevale Persiceto