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Le pratiche dei femminismi si parlano ed esplodono

Fare femminismo. La forza e il cardine del lavoro della giornalista Giulia Siviero, pubblicato da Nottetempo, è nel suo titolo: rivendica, con la pregnanza dello slogan e l’urgenza delle generazioni, dei secoli, che l’hanno preceduta, la natura di pratica, di agito, di irruzione tangibile nel reale del femminismo nelle sue molteplici articolazioni. Non inganni, in questo senso, l’uso del singolare, perchè dentro al medesimo nome (forse, mutuando le parole dalle riflessioni di genere, si potrebbe parlare di spettro) anche le pratiche si articolano e si moltiplicano. Sono tante quante le voci delle donne che, nei secoli, se ne sono fatte agenti attive. Talvolta possono (e lo hanno fatto) confliggere, ma, nell’ambito della pratica, l’esplosione stessa del conflitto si rivela spesso generativa, di pensiero e teorizzazione, spesso, sempre di indagine e di possibili nuove strade. Le prassi femministe, suggeriscono le pagine di Siviero, somigliano alle donne che le hanno incarnate: portano a sintesi vissuti e percorsi che, talora, non potrebbero essere più diversi, forse persino antitetici. Per questo, Siviero, con lucido disinteresse dello sviluppo cronologico delle battaglie, tiene insieme tempi lontani, geografie che non avrebbero mai potuto incontrarsi, esempi che, anche senza poter aver avuto punti di contatto, si parlano tra loro. Nelle sue pagine, le donne che hanno scelto di rifiutare (anche programmaticamente) l’imposto destino procreativo, sfilano idealmente alle Madres di Plaza de Majo, che della propria maternità biologica fanno un gesto politico, prima per partorire se stesse a una nuova consapevolezza di ciò che avviene loro intorno e poi per farsi madri di tutti gli oppressi, ad ogni latitudine o altezza cronologica.  Il testo di Siviero diventa a sua volta un contenitore di moltitudini. Una sorta di manuale di pratiche a proprio modo rivoluzionarie, che finisce per assomigliare agli opuscoli che le femministe e i movimenti accludevano ai loro fogli informativi negli anni Settanta, perché soprattutto tra le donne, è dall’agire concreto che sorgono le teorie, non il contrario. È, anche, un attento lavoro storico, che non deroga mai alla puntualità documentale di chi cerchi nomi, date, riferimenti (e una nutritissima appendice bibliografica). Ma è, forse soprattutto, proprio come il movimento femminista, una galleria di vissuti, che pur non essendo (né potendo o volendo, del resto) essere esaustivo, ha il merito tra gli altri di non essere etnocentrico, portando a titolo d’esempio tanto la riappropriazione ad uso di rivolta del proprio corpo e della propria nudità delle donne nigeriane, quanto le battaglie per il lavoro delle operaie sudcoreane, che passano a loro volta dall’astensione dal sesso, e dunque dalla riappropriazione del proprio corpo come la più potente delle armi a disposizione. E non si tratta – solamente – di una metafora. Coraggiosamente, il lavoro di Siviero riflette anche sulla riappropriazione della violenza, sulle esperienze che hanno voluto liberare le donne dall’obbligo alla non violenza come se a loro dovesse essere connaturata, e d’altra parte, però, ponendo al centro della riflessione i modi in cui le donne si riappropriano anche di questa possibilità, che hanno a che fare piuttosto con la messa in ridicolo o l’autodifesa che non con la modalità patriarcale e mortifera di intendere il concetto stesso di violenza.

Le donne, le femministe, hanno trovato molti più modi per essere dinamitarde, per distruggere e sovvertire il mondo come sono state educate a subirlo. Hanno imparato (e ancora, sovente, sono chiamate a farlo) ad inventare strumenti e vie per agire in prima persona su se stesse, per se stesse e a beneficio della società nel suo insieme. Hanno provenienze e scelte diverse, eppure contribuiscono tangibilmente a un cammino comune, in una chiamata alla sorellanza che – lontano dalla retorica banalizzante di cui oggi si vuole rivestire il termine – ha portato le donne a rifiutare la qualifica forzosa di minoranza dentro cui il patriarcato le ha volute rinchiudere. Lo si vede – e, racconta – lo ha scoperto la stessa Siviero quando qualcuno, la docente Adriana Cravero nello specifico, sceglie di restituire alle donne la loro qualifica di maggioranza statistica scegliendo, per i propri studenti, il maschile sovraesteso, e snidando così i malcelati (o forse malcompresi, magari addirittura inconsci) malumori di chi si vede snidata la sua apparentemente inevitabile condizione di privilegio.
Un gesto minimo, che però ad una giovane Siviero era servito da detonatore di una nuova coscienza, e al lettore dall’occhio attento può valere da scintilla che dimostra il potere (se non esplosivo) senz’altro trasformativo delle parole, che – anche in quelli che appaiono dettagli – finiscono per agire sulla realtà, quantomeno quella di chi ha bisogno di riconoscere cascami patriarcali in abitudini date per scontate. Così come piccoli, quotidiani, sono stati spesso i simboli e gli atti di rivoluzione delle donne, che prendevano la forma di fazzoletti bianchi, di bastoni a simulare fucili, di ferri da maglia contro il Terrore o persino del vasetto di Yogurt con cui si curavano, laddove il potere – anche quello medico – negava altre strade, una micosi.

femminismo

Nelle vibranti pagine di Siviero c’è spazio per tutte. Dalle portatrici senza nome di sapienze antiche tramandate da una memoria contadina a figure capitali e mai abbastanza ricordate che hanno fatto la storia, non soltanto del movimento. A partire dagli anni della rivoluzione francese di Olynpe de Gouges, che firma La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina e muore sotto la ghigliottina degli autodichiarati rivoluzionari gridando “se una donna ha il diritto di salire sul patibolo deve avere anche quello di salire sulla tribuna”. Passando per avvocate come Gisele Halimi, franco tunisina, che portando sul banco dei testimoni la voce delle donne e delle intellettuali, con in testa Simone de Bouvoir, trasforma l’ennesimo procedimento per stupro dall’ennesimo processo alla vittima che ancor oggi conosciamo in un processo al sistema del potere poliziesco e non solo che svela i suoi tragici bias cognitivi e le sue crudeltà. Fino alle donne che, nel pieno degli anni duemila, usano ancora le modalità di ribellione dei femminismi per combattere le disuguaglianze, anche quelle sociali, economiche, lavorative. E, persino, oggi come a metà del novecento, come uno spazio di libertà anticoloniale. Perché forse, l’eredità più forte della memoria che Siviero mette in fila, e della sua programmatica varietà è che, non soltanto oggi, non si dà battaglia per i diritti senza intersezionalità. Che le pratiche, qualsiasi siano, devono servire a dar forma a un mondo migliore per tutte, rifiutando di rinchiudersi in recinti chiusi di singole battaglie da vincere. Che si giocano, però, ancora oggi, quasi tutte sul corpo delle donne. Così una diversa concezione della sessualità e della sua presa di possesso da parte dello sguardo femminile dialoga con lo stato di salute (drammatico) del diritto all’aborto nel mondo, a partire dall’Italia, l’azione e la presa di parola sono due componenti parimenti essenziali di un cammino ancora nel pieno del suo svolgersi.  La rievocazione, mai nostalgica e semmai proattiva, esemplare, delle pratiche femministe, si rivela essenziale in un tempo che sovente oscilla tra l’appropriazione di massa parole e linguaggi depotenziati e diventati buoni per le pubblicità e la programmatica marginalizzazione di ritorno, a suon di benaltrismo o di grottesche proposte di legge scritte più lentamente di quanto non vengano ritirate, nel migliore dei casi, e più spesso approvate nottetempo. Siviero offre uno strumento potente alla coscienza collettiva, perché recupera la stagione (trasversale alle date) della radicalità, perché (e se c’è un tempo che sta dovendo accorgersene, è quello che stiamo vivendo) nessun diritto può mai essere dato per acquisito. Non resta dunque che ritrovare, come le donne hanno fatto lungo la storia, fungendo da esempio a tutti i movimenti), la dimensione collettiva come messa in comune di milioni di individualità, chiamate a far tornare le streghe occupare di nuovo uno spazio pubblico, sia esso quello delle piazze o delle opinioni, per far sentire non soltanto le loro voci, ma la deflagrazione delle loro azioni, per costruire un mondo libero dai molti, spesso nebulosi, volti del patriarcato.

Immagine di copertina di opera di Maria Ponomariova
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