«Cerco di far sentire e vedere alle persone ciò che stanno vivendo i personaggi, con la loro soggettività. Non cerco di esprimere un’opinione, ma di capire cosa sta succedendo in vite diverse dalla mia». Capire cosa sta succedendo in vite diverse dalla mia: Pascale Kramer, in libreria con Le indulgenze, pubblicato da Nutrimenti, rifugge con chiarezza dall’autobiografismo così presente sulla scena letteraria. Non una autofiction, né un libro-denuncia, ma il racconto senza giudizio di un amore sbagliato.
Un romanzo sul corpo, sul desiderio, e anche sul riconoscimento del sé nell’altro, perfino quando l’altro, come nel caso della protagonista Clémence, è uno di famiglia: Vincent, lo zio fascinoso e famoso, da cui la nipote si sente attratta fin dall’adolescenza. Il libro è una traversata familiare che attraversa quarant’anni, di decennio in decennio. Si apre con Clémence poco più che ragazzina, nel 1977, e si chiude nel 2016, quando ormai è adulta e lo zio Vincent, nel frattempo, è venuto a mancare.

Pascale Kramer ci presenta una storia privata, composta con diverse lenti, e indagata da ogni possibile angolazione: «Scrivere mi ha richiesto tempo perché ho dovuto immergermi nelle sensazioni e nei modi di sentire nel corso degli anni, fin dalla mia prima adolescenza. Detto questo, sono sempre io a creare la trama e a dirigere i personaggi. E vorrei sottolineare che lo zio trova sua nipote Clémence affascinante e graziosa, ma non è veramente interessato a lei. Si lascerà coinvolgere molto volentieri in una relazione perché è così e perché i tempi non gli impongono alcuna restrizione».
Leggendo Le indulgenze si apprezza anche ciò che manca: la condanna aperta, la presa di posizione. Vale la pena di specificarlo: la sospensione del giudizio, anche di fronte a qualcosa che potrebbe apparire – ed è – enorme, non implica provocazioni o sottovalutazioni. Nel romanzo di Kramer, semplicemente, i fatti vengono presentati per come sono: da vicino, nella loro essenza, e dando al lettore il mandato di farsi un’idea, attivando, per così dire, in autonomia, i propri strumenti e la propria sensibilità.
C’è una sorta di particolare levità anche nel modo con cui, trascorsi anni da quei fatti, viene fuori la reale natura del rapporto tra la nipote e lo zio. Una verità scomoda anche per chi aveva capito, e taciuto, le proprie intuizioni. La rivelazione, comunque, non resta senza conseguenze. Vale però solo per Clémence, che perde la prossimità e la fiducia dei genitori. Lo zio Vincent, al contrario, rimane come più al riparo dal distacco, dalla condanna privata e collettiva che si consuma nella sfera familiare. Kramer chiarisce: «Volevo soprattutto mostrare il divario tra lo shock che la scoperta provoca ai genitori di Clémence e i suoi sentimenti in quel momento. Per lei è tutto nel passato. Viene “punita” tardivamente. I suoi rapporti con i genitori sono molto danneggiati perché hanno difficoltà a perdonare, non Vincent ma la loro figlia. È un altro tempo, altri modi di giudicare». Ancora, dunque, l’importanza dei punti di vista, la parzialità dei giudizi, dell’attribuzione della colpa.
Il tempo, e le sfasature del tempo, giocano non a caso un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo, così come il già richiamato corpo. Non c’è solo l’avvenente, lolitesca Clémence: c’è il corpo di sua madre, che gradualmente rimane paralizzata, fino a scegliere l’eutanasia; c’è il corpo dello stesso Vincent, che continua a sedurre anche in età avanzata, e che improvvisamente scompare; ancora, quello della zia in cura per un cancro, della nonna, che non si sa come resiste il più possibile. I corpi, sembra suggerire Kramer, sono gli specchi di ciò che siamo e sentiamo. E delle nostre scelte, comprese quelle più politiche. «Le vite, i dolori e la felicità degli altri personaggi sono per me altrettanto importanti, essendo la storia di Clémence soprattutto il filo conduttore attraverso le epoche. E infatti i corpi parlano di noi. C’è chi punta sulle esigenze o sulla forza di carattere (le ginnaste, come Clémence e la sua maestra, ma anche Nancy, Lenka, Sofia), chi resta logorato o danneggiato dalla vita (Karine, la madre di Clémence, nonostante la sua incredibile resistenza), e chi rifiuta di abbandonare l’era della seduzione, come Anne-Lise, la moglie di Vincent».
È anche un romanzo sui luoghi abitati dai corpi: case di famiglia, chalet sul lago, stanze in cui si trasloca, si gode, si bisbiglia, si giudica, altre in cui si soffre. Gli spazi domestici hanno un loro peso specifico quasi come se fossero personaggi altri: dalla casa delle vacanze in cui la famiglia si riunisce, e che viene recuperata da un’erede nel finale, a quella in cui vive la nonna – dove si fa trovare la nipote, quando sa di poter incontrare lo zio. C’è anche la luttuosa abitazione dei genitori di Clémence, lì dove si consuma la malattia della madre. Tutto è molto tangibile, anche gli scricchiolii, le crepe, come pure la voce di uno scaldabagno rumoroso, che fa da controcanto al respiro e ai borbottii degli umani.
«Ho ambientato il libro nei luoghi della mia giovinezza e delle mie prime esperienze romantiche. La grande casa di famiglia e quella dei miei nonni, la casa dei genitori di Clémence, quella dei miei genitori, con lo scaldabagno a gas che faceva un rumore sordo ogni volta che aprivamo il rubinetto dell’acqua calda. Mi ha commosso riscoprire queste sensazioni, questi dettagli: i grandi armadi con i ripiani etichettati, l’odore del borotalco e i paesaggi di montagna, il respiro delle mucche nella notte, le grandi genziane gialle, e anche il lago di Neuchâtel, dove sono stata una sola volta da ragazzina (lo chalet è un’invenzione) e di cui conservo ancora il ricordo affascinato della barca, che avanzava tra i giunchi e spingeva le gallinelle d’acqua davanti a sé…».
È impossibile leggere Le indulgenze senza pensare al tempo presente, e a come il romanzo rifletta e contenga, sia pure implicitamente, l’urgenza di domande e questioni sempre più al centro del dibattito pubblico: il consenso nei rapporti di coppia, la legittimità, per una donna, di denunciare dopo molti anni abusi maschili, o anche solo comportamenti inappropriati. Non a caso, anche se nella sua storia tutto sembra avvenire in modo consensuale – Clémence non denuncia, né accusa lo zio – prima di cominciare a scrivere Kramer ha compiuto un grande lavoro di ricerca intorno alle istanze femministe, e non solo.
Capita anche che la vita sorpassi la letteratura. Il 23 dicembre scorso il New Yorker ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente: La voce passiva di Alice Munro. L’autrice, Rachel Aviv, ha fatto un lavoro interessante: è andata a cercare nei racconti di Munro tracce del vissuto portato alla luce dalla figlia della scrittrice, Andrea Robin Skinner, che proprio qualche mese fa ha raccontato pubblicamente gli abusi subiti dal patrigno quando era bambina (siamo nel 1976, Andrea aveva nove anni: lo stesso periodo in cui si apre il romanzo di Kramer). Semplificando, colpisce – ma forse non dovrebbe stupire – quanto Munro, premio Nobel per la letteratura nel 2013, abbia provato ad affidare alla scrittura vissuti, angosce e sentimenti non affrontati con decisione “in vita”. In un passaggio emozionante del lungo e documentato articolo, Aviv riporta anche lo sgomento provato tanto dalla madre quanto dalla figlia alla lettura di un racconto della canadese Linda Svendsen, con al centro una storia di abusi e reticenze familiari. Andrea Robin Skinner riesce a confessare a sua madre, Alice Munro, cosa ha subito dal patrigno, solo dopo aver condiviso con lei quella lettura così vicina alla sua esperienza. È la letteratura, dunque, a fare da detonatore, anche qui dopo anni di intuizioni e silenzi. Andrea ha reso nota la vicenda qualche mese dopo la scomparsa della scrittrice. Oggi sono tanti i lettori critici di Alice Munro che non riconoscono più il valore delle sue opere perché contestano le sue scelte: di madre, di donna che resta accanto all’uomo che ha abusato di sua figlia.
Allo stesso modo, spostandoci sul cinema, c’è chi ha dichiarato di recente di non poter più vedere i film di Bernardo Bertolucci: a reinnescare la polemica, la sospensione della proiezione di Ultimo tango a Parigi alla Cinémathèque française. Da anni, a fasi, si riapre il confronto aspro intorno alla presunta violenza subita in scena da Maria Schneider davanti alla macchina da presa.
Nelle scorse settimane, sempre in Francia, si è svolto il clamoroso processo che ha portato alla condanna di Dominique Pelicot, che per quasi dieci anni ha drogato e violentato nel sonno la ex moglie Gisèle, coinvolgendo negli abusi oltre cinquanta uomini. Emoziona guardare quanto fosse fitta la folla di donne – e per fortuna anche di uomini – di tutte le età fuori dal tribunale, per sostenere e dare coraggio a Gisèle Pelicot.
E ancora: è un segno, forse, che a vincere il Premio Strega europeo nel 2024 sia un libro come Triste tigre di Neige Sinno, che pure affronta con coraggio il tema dell’abuso subito nell’infanzia, e la difficoltà e necessità di denunciare.
Proprio alla luce di tutto questo, ho chiesto a Pascale Kramer se ha mai temuto che il suo romanzo potesse essere considerato tiepido rispetto a certe istanze e urgenze. Riporto per intero la generosa risposta dell’autrice, utile anche a ricordare un principio semplice ma che dovrebbe essere inderogabile, in letteratura, a prescindere da tutto: la possibilità di raccontare una storia.
«Tutte queste donne, che hanno preso la parola per denunciare abusi folli, ci hanno portato a un passo essenziale. Sto leggendo il libro di Neige Sinno, che trovo incredibilmente intelligente. Molte donne (e anche molti uomini immagino) hanno riletto le loro storie passate alla luce di questa nuova consapevolezza delle cose, di questa nuova moralità dovrei dire. Ho riletto anche il mio. Non ho vissuto nulla di grave, ma ho accettato (e voluto!) molte cose che oggi sarebbero considerate abusi. Tuttavia non sarei d’accordo che la mia volontà venisse negata in queste situazioni, ciò significherebbe sollevarmi da ogni responsabilità. Niente e nessuno mi ha mai costretto a vivere nelle pessime relazioni che ho vissuto, niente tranne una voglia matta di fare cose stupide, di disobbedire. Clémence vuole suo zio, con tutte le sue forze, non tanto perché lo desidera, ma perché vuole essere nella sua luce. Sa benissimo che non è bene, non è intelligente, andare a trovare lo zio sposato in albergo, ma lo fa di sua spontanea volontà e la cosa la esaspera. L’esperienza non è felice, non soddisfacente, eppure appena lui la richiama, lei dimentica tutto e torna indietro… Io ci sono tornata in situazioni simili. E sto cercando di capire. Quindi no, non ho cercato di denunciare (anche se in modo tiepido) il dominio degli uomini. Altri lo hanno fatto, e spesso in modo straordinario. Sto dicendo qualcosa di completamente diverso: l’infinita complessità del desiderio delle donne, l’incoscienza di un’epoca in cui siamo passati in pochi anni da un mondo di autorità e moralità al rifiuto totale di ogni divieto. E se ho avuto paura quando è uscito il libro, è perché mi è stato rimproverato di voler definire la nostra responsabilità nei confronti di noi donne della mia generazione, nel modo in cui sono stati “mal-educati” gli uomini che cadono oggi».
In copertina: Le indulgenze di Pascale Kramer, dettaglio libro