16.06.2025

L’America dei sogni infranti e delle resistenze silenziose. Intervista a Jane Smiley

Una conversazione con la scrittrice americana Premio Pulitzer attraverso le dinamiche delle famiglie e delle relazioni umane, e le trasformazioni degli Stati Uniti del XX secolo

Raccontare gli Stati Uniti attraverso il tempo, le famiglie e i silenzi. È ciò che fa Jane Smiley da cinquant’anni con una voce limpida e penetrante, capace di percorrere la storia americana senza mai perdere di vista l’intimità dei legami e la complessità dell’animo umano. Nata nel 1949, è cresciuta nel Missouri e ha frequentato l’università in Iowa, dove ha poi insegnato scrittura creativa. La sua carriera letteraria è iniziata alla fine degli anni Settanta, e ha conosciuto la consacrazione internazionale con il romanzo Erediterai la terra (La Nuova Frontiera), che le è valso il Premio Pulitzer per la narrativa e il National Book Award.
Scrittrice versatile, Smiley sa spaziare dalla satira accademica al romanzo storico, ha costruito un corpus ricco, variegato, ma il cuore della sua narrazione è la terra: non solo quella coltivata, ma anche quella tramandata, contesa, abbandonata. Tra le trasformazioni politiche, sociali, emotive che hanno segnato l’America del XX secolo, con una scrittura precisa, empatica e priva di retorica, Smiley dipinge affreschi epici fatti della quotidianità e dei conflitti generazionali, dei sogni infranti e delle resistenze silenziose.

Jane Smiley
Jane Smiley

Jane, cominciamo da Erediterai la terra. Più volte, nelle interviste che ha fatto negli Stati Uniti dopo aver vinto il Pulitzer, ha detto che l’idea di scrivere un romanzo basato su King Lear le è venuta perché le dava fastidio l’idea che le figlie del re stessero sempre zitte. Solo questo?
Questo, e il mio gigantesco amore per Shakespeare. Negli anni dell’università frequentai molti corsi di scrittura creativa e venni introdotta a tantissimi libri di cui, onestamente, o non avevo mai sentito parlare o che non avevo mai letto e tra questi quelli di Shakespeare: commedie, tragedie, amori romantici. Lessi tutto. E pensai: voglio farlo anch’io.

La famiglia Cook vive nel pezzo di terra protagonista del libro da diverse generazioni, e per loro è sempre stata un’oasi. Adesso, però, le figlie pare non la vedano più così: per alcune di loro sembra una prigione.
Ciascuna ha un approccio diverso rispetto alla fattoria di famiglia. I luoghi non hanno per tutti lo stesso valore, lo stesso significato: per certi di noi sono un’oasi, come dice lei, per altri una prigione. Non dipende dal posto, dipende dal nostro sguardo. E così è per tutto: ciò che esiste al mondo assume il valore che gli diamo noi. Questo caso, poi, è speciale. La gente di campagna ha un attaccamento fortissimo alla terra, soprattutto quando la terra in questione è stata un mezzo di riscatto, un mezzo per l’elevazione sociale: dal nulla, grazie soltanto alla terra, questa famiglia è diventata più che benestante.

È il sogno americano.
Per certi aspetti, sì. Anche se oggi il sogno americano non esiste più. Un mito che ci siamo tramandati per anni e che adesso è morto. Specie per la gente delle campagne, appunto.

Perché?
Le grandi compagnie e le banche si sono prese tutto. E oggi la terra raramente appartiene al singolo, alla famiglia che la vive e la usa per il proprio benessere e il proprio sostentamento. Oggi è più probabile che la gente delle campagne, pur vivendola, la terra, debba render conto ad altri, a quelli delle città, che la terra, forse, non l’hanno neanche mai vista e che però l’hanno comprata.

Jane Smiley

Crea del malcontento, questo meccanismo?
Sì.

Crede che le ragioni per cui Donald Trump sia tanto popolare nelle zone rurali degli Stati Uniti siano da ricercare qui, in questo malcontento?
Pure per questo, sì – ma non soltanto. Non si sentono presi in considerazione.

Ma Trump è un uomo di città. Anzi, un ricco uomo di città.
Conta ciò che dice. E lui dice di tenere profondamente a questa gente.

Mente?
Non è ovvio?

A tal proposito. Il romanzo è ambientato negli anni Settanta, un periodo, sia nel libro sia pure nella realtà, più tranquillo. O almeno, così pare oggi.
Oh, le cose sono peggiorate ancora e ancora e ancora. Negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta avevamo tante preoccupazioni, certe ci sembravano grandi, anzi gigantesche, però non dubitavamo mai che, alla fine, ce l’avremmo fatta. Che quella guerra sarebbe finita, che quell’altra non sarebbe scoppiata, che il tessuto sociale avrebbe retto, che l’economia si sarebbe risollevata dopo delle inflessioni: per noi era scontato. Oggi, invece, è come se una nuvola nerissima e carica di pioggia fosse in avvicinamento, e non lascia presagire proprio nulla di buono.

Dunque lo era davvero, un periodo più semplice.
Sì, ma era dovuto anche all’inconsapevolezza. Non conoscevamo i danni del petrolio, dei pesticidi, dell’abbattimento delle foreste. Stavamo gettando le basi per un futuro che non potevamo immaginare.

Mettendo da parte il futuro, restando sul passato. Le sorelle protagoniste non possono aggirarsi tranquillamente tra le camere del proprio passato: alcune sono abitate da mostri veri e propri. Ci sono zone del suo passato, Smiley, a cui non riesce a tornare?
No, devo dire di no.

Infanzia e adolescenza tranquille, dunque. Di solito, le stanze in cui è più difficile entrare sono in quelle parti di noi stessi.
Sono cresciuta in una famiglia bella e divertente, i miei modelli, nell’infanzia e nell’adolescenza, sono stati meravigliosi. Giocavo spesso con i miei nonni, erano persone gioiose e spiritose, amavano la musica, stare con noi nipoti. Io con loro passavo tanto del mio tempo, da bambina. Devo tanto ai miei nonni.

Nonni materni?
Nonni materni. Le racconto un aneddoto che dice molto di loro. Avevano un ranch in Idaho, credo sia una delle ragioni per cui sono sempre stata talmente appassionata alla vita di campagna. Era un posto che dava un buon profitto e, in fondo, penso si possa dire fossero ricchi. Il fratello di mio nonno viveva con loro, lì nel ranch, e una notte tornò a casa ubriaco e in lacrime, disperato. Aveva un problema con il gioco d’azzardo, e aveva perso il ranch a una partita a poker. I miei nonni non si scomposero più di tanto: presero quel che era loro e lasciarono il ranch, si trasferirono altrove e ricominciarono tutto daccapo.

Così, come se nulla fosse?
Avevano una visione della vita pratica. Mia nonna ne soffrì comunque, ovvio. Tanto che mio zio e mia madre, ogni tanto, la portavano in auto fino a quello che era stato il loro ranch per farla passeggiare un po’ per quelle campagne.

Jane Smiley

I suoi genitori, invece?
Faccenda un po’ diversa. Mia madre lavorava per il giornale locale – peraltro, era una bravissima scrittrice. Amava la letteratura, tant’è che quando mostrai interesse per la scrittura mi incoraggiò. La sera, spesso, fingevo di dormire in camera mia, mentre, in realtà, mi mettevo sotto le coperte con torcia e libro e leggevo ben oltre l’orario. Lei lo sapeva, oggi mi è chiaro, e non diceva niente.

Era ancora viva quando vinse il Pulitzer?
Sì. Ne fu entusiasta, felicissima. Venne pure alla cerimonia di consegna, così orgogliosa da non crederci. La reazione che mi è rimasta più impressa, però, è quella di una delle mie figlia. Allora aveva quattordici anni, un adolescente in piena ribellione. Era a casa quel giorno, aveva la febbre. Chiamarono per annunciarmi la vittoria, io quindi, una volta chiuso, glielo dissi, fu lei la prima con cui ne parlai. E lei, guardandomi appena, fece giusto un suono, una sorta di ah. Come dire: “vabbè, niente di che” – ride, ndr.

Mi ha raccontato di sua madre, ma non di suo padre.
Non l’ho conosciuto, non davvero. Quando avevo un anno gli fu diagnosticata la schizofrenia, e venne ricoverato. Era un uomo bellissimo. Molto alto, molto affascinante. Amava inventare e scoprire cose nuove, era una persona curiosa, e penso sia un tratto caratteriale che mi ha trasmesso e che mi ha permesso di diventare una scrittrice.

Era una persona creativa.
Molto. E, sa, spesso la creatività va di pari passo con la malattia mentale. Mio padre, purtroppo, non ne fu esente. La sua era, in generale, una famiglia così: creativa, curiosa, intelligente. Erano gli Upjohn, una delle famiglie più ricche e famose degli Stati Uniti: avevano un’azienda farmaceutica. Furono loro, gli Upjohn, i miei antenati, a inventare la pillola.

I suoi antenati inventarono la pillola?
Esatto. Fino a un centinaio di anni fa, per prendere una medicina lo si doveva fare in forma liquida. Gli Upjohn capirono come trasformarla in una pillola. Erano davvero, davvero ricchi. Ma pure parecchio strani.

Continua a insistere su questa loro stranezza.
Lo erano! Le racconto un altro aneddoto. Nel 1920, o giù di lì, morì uno degli Upjohn più ricchi, uno di quelli che all’azienda di famiglia aveva lavorato per davvero rendendola quel che era diventata. Morì dopo aver litigato in maniera feroce con i propri parenti, e nel testamento scrisse che i suoi soldi avrebbero potuto ereditarli i suoi parenti prossimi, in linea genealogica, soltanto quando fossero morti tutti quelli in vita mentre lui era vivo. Non voleva che i suoi soldi andassero alle persone con cui aveva litigato.

Rancoroso.
Vuol provare a indovinare a chi andarono questi soldi?

Non mi dica.
Avevo poco più di cinquant’anni, un giorno mi arrivò una lettera dalla banca. Una somma incredibile.

Be’, un grande grazie all’antico parente.
Ride, ndr – Ancora oggi lo ringrazio.

Jane Smiley

A tal proposito. Mi ha detto di aver ereditato da suo padre la curiosità e la creatività, da sua madre la passione per la lettura. Diventando madre, poi, ha mai temuto di trasmettere ai suoi figli tratti caratteriali di cui, magari, non è fiera.
Oh, sì. La paura era tanta.

E?
Hanno le loro stranezze, alcune le riconosco come mie o del padre, però sono venuti su piuttosto bene, ne vado fiera. Mio figlio, avuto dal terzo matrimonio, ad esempio.

Mi scusi, quante volte è stata sposata?
Quattro. Ogni volta era quella giusta – ride, ndr.

Cosa diceva su suo figlio?
In lui riconosco l’umorismo del padre e la mia creatività. Però, se devo essere sincera, a colpirmi di più negli anni non sono state le cose di loro in cui mi è capitato di rivedermi ma quelle che li contraddistinguevano in quanto persone diverse da me.

Smiley, a proposito di matrimoni. In L’età del disincanto la crisi che nasce tra marito e moglie non viene fuori attraverso delle liti, ma silenzi lunghi e profondi.
Se vuol sapere se ha una nota biografica, considerati i miei quattro matrimoni, la risposta è no. Tuttalpiù mi sento di dire che di crisi del genere, che vengono fuori con silenzi come quelli tra i coniugi, come dice lei, ne ho conosciute.

Jane Smiley

È una famiglia molto unita quella che racconta. Felice.
Mi piaceva l’idea di mettere in crisi una coppia nella cui vita tutto va bene. Non hanno problemi, sia economici sia di salute. Hanno dei bei figli, il lavoro dà i suoi frutti, la quotidianità funziona. Però qualcosa non torna. La soddisfazione non è totale. Da qui la crisi.

Da cosa deriva questa insoddisfazione, allora?
È qualcosa che capita. Semplicemente capita. A volte ciò che ci succede pare non abbia senso e magari non ce l’ha davvero, magari le ragioni sono talmente profonde da risultare inafferrabili. Però sono convinta che periodi del genere, periodi di grande e confusionaria insoddisfazione, capitino.

A lei è capitato?
Certo. Attorno ai trent’anni. Sono entrata in una crisi piuttosto pesante. Quello che mi accadeva mi sembrava fuori dal mio controllo, ero confusa, irrequieta.

E poi?
E poi il nodo si è sciolto, e in modo del tutto naturale. Determinate cose della mia vita hanno preso avvio, i figli sono cresciuti dandomi anche più tempo di scrivere, occuparmi di me stessa, e tutto si è risolto. Sono sicura sia una sorta di passaggio obbligato nella vita di ciascuno di noi.

A proposito della scrittura. Quando ha cominciato?
Da piccolissima. Inventavo storie, mi piaceva molto.

Immaginava, magari da adolescente, che la sua carriera sarebbe andata, poi, così com’è andata? Mi riferisco al Pulitzer, e ai tantissimi altri premi.
No, assolutamente. In realtà non ci ho proprio mai pensato, non mi interessava questo aspetto della scrittura. Mi piaceva moltissimo, e lo facevo, e lo faccio, per questo: per il piacere, l’atto in sé.




In copertina: Jane Smiley © Manu Mitru

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