22.06.2025

L’acqua è l’acqua è l’acqua! Viaggio alle sorgenti di un sogno

L'ultimo libro di Chiara Barzini racconta di desideri che hanno la forma dell'acqua

«L’acqua non è una cosa che puoi trattenere. Come gli uomini. Ho provato.
Padre, fratello, amante, amici veri, fantasmi affamati e Dio, uno per uno, tutti mi sono scivolati via
[…]
Alcune acque ci annegano. Altre no.»
(Anne Carson, Antropologia dell’acqua, Donzelli 2010)

«A volte penso che questo viaggio sia un modo rocambolesco
per affermare autorità su un luogo che non l’ha mai concessa a nessuno.
Forse sto cercando di domare o conquistare i flussi della natura
nella speranza di poter chiamare questa terra “casa”.»
(Chiara Barzini, L’ultima acqua. Il sogno perduto di Los Angeles, Einaudi 2025)

Nel nuovo libro di Chiara Barzini, L’ultima acqua. Il sogno perduto di Los Angeles, appena uscito per Einaudi nella collana “Frontiere”, tutti inseguono un sogno, o sono inseguiti da un sogno. Un sogno che ha la forma dell’acqua. Da questa mutevolezza, forse, derivano le innumerevoli direzioni che il libro prende. Da un certo punto di vista il progetto è ambizioso: i riferimenti, le storie, i materiali sono così tanti ed eterogenei, che il rischio di dispersione c’è. Tuttavia Barzini non perde mai di vista il fuoco centrale della sua scrittura, portando i lettori con sé fino alla fine del viaggio in cui ripercorre il percorso del monumentale acquedotto di Los Angeles alla ricerca dell’acqua perduta.
Coincidenza vuole che la mattina dopo aver consegnato l’ultima versione del libro, Los Angeles sia in balia delle fiamme: «La scrittura è sempre stata una forma di esorcismo», osserva la scrittrice, «per questo l’incendio mi sembrava un tradimento. Ero stata nel mondo dell’acqua per così tanto tempo che non mi aspettavo finisse tutto in fiamme».

Naturalmente acqua e fuoco sono da considerarsi elementi insieme reali e simbolici. All’acqua e alle sue simbologie, come è evidente nel magnifico libro di Anne Carson, Antropologia dell’acqua che ho scelto di citare in esergo, non si può sfuggire, sebbene l’acqua per il suo carattere innato continui a sfuggirci, appaia e scompaia come un miraggio. Ripensando a Los Angeles negli anni Novanta, Barzini scrive: «In quel periodo l’acqua faceva parte della natura strafottente della città, conferiva ai suoi abitanti il potere che bramavano. L’acqua nella steppa è un’apparizione, l’illusione di una fluidità che non sarebbe mai dovuta esistere».

È un celebre film di Steven Spielberg ad aprire il primo capitolo de L’ultima acqua: «Mentre Chrissie nuota verso il mare aperto, entrano in scena i violini di John Williams. La ragazza muove le lunghe gambe sott’acqua per rimanere a galla. Qualcuno la guarda dal basso».
Bastano due righe per evocare le scene successive, per sentire «l’irresistibile carica di adrenalina» di un film, Lo Squalo, che ha segnato più di una generazione, sicuramente quella della scrittrice e la mia.
All’età di sette anni, durante un viaggio in America con i genitori e il fratello, spinta dal «bisogno di vedere il mondo di quel film», Chiara visita gli Universal Studios e a bordo di un trenino si avvicina alla famosa Amity Bay in cui lo spietato squalo si aggira. Qualcosa però va storto: il rivestimento in vetroresina del pescecane, i denti finti e pure troppo pronunciati da sembrare delle carote giganti, il lago che non è una spiaggia e nemmeno un lago, l’acqua verdastra e puzzolente mostrano alla piccola Chiara che la vita reale non solo «non era come nei film, ma la realtà dietro la produzione dei film era anche peggio». Come il cielo di carta strappato nel finale di The Truman Show nella futura scrittrice «il disappunto si moltiplicava e ristagnava come il laghetto di Amity Harbor».

Mi piace pensare che Barzini sia diventata scrittrice e sceneggiatrice sulle rive di questa torbida laguna; che la sua scrittura abbia preso le mosse da questa promessa infranta. E le promesse (non tutte tradite) narrate nel libro sono tante: in primis la promessa dell’ingegnere William Mulholland di portare l’acqua in una terra desertica, progettando e costruendo nel 1913 l’acquedotto di Los Angeles, e quella di un famoso regista di Hollywood, nel libro detto il Regista, di trarre un film dal romanzo di Barzini, Terremoto, pubblicato da Mondadori nel 2017. Promesse che celano altre promesse (la maternità, la famiglia, l’amicizia possono considerarsi promesse) rivelando le nostre fragilità, private e collettive. La promessa è anche il titolo della prima parte del libro, diviso in tre sezioni e seguito da un epilogo dal significativo (e liberatorio) titolo: La discesa, in cui si passa dall’acquedotto di Los Angeles a quello romano di Ponte Lupo che raccoglieva le acque dalle sorgenti del fiume Aniene. Ripercorrere il cammino dell’acqua è un vero e proprio viaggio iniziatico.

Inaugurazione dell’acquedotto di Los Angeles, 5 novembre 1913

Nella prima parte del libro Barzini racconta di quando alcuni anni prima, durante la presentazione americana del precedente romanzo, un vecchio amico le ha donato “un libro d’altri tempi” sul cui frontespizio, nelle parole ricamate in corsivo nero, si leggeva: Rapporto finale sulla costruzione dell’acquedotto di Los Angeles. La firma era di William Mulholland. Intorno a questo oggetto, quasi una reliquia, che conserva le fotografie originali della costruzione del famoso acquedotto di Los Angeles (a cui è ispirato anche Chinatown di Roman Polanski) nonché le mappe stampate su una carta sottilissima che Barzini mostrerà in seguito a Robert Towne, sceneggiatore di Chinatown, uno dei tanti sorprendenti incontri del libro – si muove L’ultima acqua, la cui natura fluida e sfuggente si manifesta nella commistione dei generi (reportage, saggio, memoir) sia nella lingua utilizzata: a volte più “giornalistica” come in un resoconto di viaggio, altre più spontanea, autentica e introspettiva come in un diario, o ancora riflessiva e frammentaria come in un taccuino di viaggio. Barzini intesse un libro avvincente sulla «magnifica e incongrua presenza dell’acqua» nel deserto californiano ripercorrendo la storia di luoghi sinistri e talvolta dimenticati della storia della California, da Bombay Beach a Manzanar.

«In una lettera del 1936, Charles Brackett sosteneva che il celebre verso di Gertrude Stein, «Una rosa è una rosa è una rosa», esprimeva il culto del sostantivo. Se si crede nell’oggetto, l’oggetto diventa reale. La rosa odorava di rosa anche nella pagina stampata. Il manuale di Mulholland proponeva una visione simile. Scrivere qualcosa su una pagina poteva cambiare i connotati fisici della realtà.»

Mossa dalla curiosità suscitata dal libro di Mulholland, nonché dalla capacità della scrittura, se non di modificare lo stato delle cose, di offrire in compenso una lente privilegiata per elaborare il passato, sondare il presente e immaginarsi il futuro, Barzini intraprende un viaggio al termine del quale scoprirà, tra le altre cose, se il Regista le dirà di sì. Ad accompagnarla due grandissime amiche, Ruby e Kate – L’ultima acqua è anche un libro sulle amicizie femminili; a guidarla insieme agli innumerevoli libri, film, documentari, canzoni, opere di artisti citati nel libro, le scrittrici Joan Didion e Mary Austin, femminista e ribelle che insieme al marito cercò di opporsi al furto dell’acqua dell’Owen Valley e al progetto di Mulholland. A guidarla e proteggerla.
Tra i meriti del libro c’è la capacità di Barzini di gestire tutte le fonti senza mai appesantire la pagina: i fili si tengono, nonostante l’autrice spazi moltissimo, e inframmezzi la scrittura con numerose illustrazioni; diverse fotografie sono state scattate da lei stessa durante il viaggio e dal 28 maggio sono in mostra alla Miart Gallery di Milano.

Ben calibrate e autentiche sono anche le incursioni autobiografiche, quando Barzini riflette sulla propria maternità, allude alle incomprensioni di coppia, racconta il viaggio on the road con le amiche di sempre, o ancora confessa le sue fragilità connettendo ancora una volta il proprio corpo a quello del paese che l’ha accolta in un momento della vita, l’adolescenza, in cui si sperimenta insieme la fragilità e l’onnipotenza. Come quando racconta di aver smesso di mangiare appena trasferitasi a Los Angeles:

«- Devi mangiare, – disse mio padre. – Siamo nel deserto -. La parola veniva usata a casa quando le cose si facevano buie o complicate. Nel deserto se non mangi muori. Anche nella vita se non mangi muori, ma nel deserto si muore prima e si muore peggio. E quindi è stato grazie al deserto che ho ricominciato a mangiare.
‘Deserto’ era la parola che usava mio padre per spiegare perché le bollette della luce erano così alte, perché la pelle ci diventava così secca, perché faceva caldo di giorno e freddo di notte, perché gli irrigatori si attivavano in continuazione. Il deserto era una condizione preesistente, qualcosa che non sarebbe mai andato via. Il deserto era un dato di fatto. Ti faceva svenire, ti rendeva debole, era il rumore implacabile di uno spazio vuoto che era stato erroneamente riempito di mille cose fuori luogo. E noi eravamo quelle cose fuori luogo […]»

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