17.06.2025

Florine Stettheimer. Autoritratto con nudo d’artista

Nel libro di Eloisa Morra la vita sopra le righe di una delle artiste più eclettiche del Novecento, ingiustamente poco conosciuta in Italia

Sfugge a qualunque definizione, non è possibile catturarla né circoscriverla. Florine Stettheimer si racconta da sé attraverso la sua arte all’avanguardia: poesie, scenografie, oggetti di design, ma soprattutto quadri, tra questi ultimi figura un iconico dipinto che determinò una vera e propria rivoluzione. Si tratta di A Model. Nude Self-Portrait (1915), il primo autoritratto femminile di nudo integrale. Quando si ritrae senza veli in quella posa discinta, distesa languida sopra un letto, Florine ha quarantacinque anni e «sfida a viso aperto non solo i suoi contemporanei, ma anche i pregiudizi del genere». Ce lo racconta la studiosa e ricercatrice Eloisa Morra in Florine Stettheimer. Accendo la mia luce e divento me stessa, agile libretto edito da Mondadori Electa nella collana Oilà, pensata per valorizzare le donne protagoniste del Novecento e il loro lavoro attraverso storie brevi ideate per essere lette ad alta voce in quarantacinque minuti.

Accendo la mia luce e divento me stessa (Mondadori Electa, 2025)

La sensazione, leggendo Accendo la mia luce e divento me stessa, è di essere immersi in un vortice di luci psichedeliche. Conoscendo l’inafferrabilità della sua protagonista, Eloisa Morra la restituisce in tutte le sue sfumature componendo un ritratto variegato fatto soprattutto di impressioni: quindi udiamo la voce di Florine nelle sue poesie, cogliamo scorci del suo viso attraverso quadri e fotografie e, infine, scopriamo di lei tramite lo sguardo e le parole degli altri. Dice l’amico Carl Van Vechten:

«Era una persona del tutto autocentrata e dedita al lavoro. Non ispirava amore, né affetto, né una calda amicizia, ma suscitava interesse, rispetto, ammirazione ed entusiasmo».

Certo, l’opinione di Vechten, noto scrittore e fotografo statunitense, non è proprio indulgente benché ci restituisca un’impressione esatta sull’ambivalente figura di Stettheimer. Lei, dal canto suo, ricambiò dedicando a Carl alcune delle proprie poesie irriverenti in stile dadaista dove allude senza troppi giri di parole alle scorribande dell’amico nel mondo queer, alla sua passione per i giovanotti e per le droghe:

«Gioventù discordante/ allegria senza giovinezza/ degenerazione gay».

Completava il tutto il celebre Ritratto di Carl Van Vechten (1922) in cui Florine raffigura l’amico mentre è seduto nel suo prestigioso studio circondato da oggetti simbolici che paiono come un’estensione del suo essere e, al contempo, una parodia del personaggio da lui stesso creato. Nel quadro dunque vediamo Van Vechten, ma vi è intrappolato e colto anche lo sguardo irriverente e arguto della stessa Florine che, nei suoi dipinti, non si limita a ritrarre le cose come sono, ma ne evidenzia pure le storture, le contraddizioni e la più intima individualità – caratteristiche spesso invisibili a occhio nudo.

Ritratto di Carl Van Vechten di Florine Stettheimer (1922)

Nel raccontare di Florine Stettheimer, Eloisa Morra non rinuncia a costruire il mondo che la circondava e il tumulto di un’epoca, perché, se l’artista in sé è indefinibile, ecco che le coordinate storiche-geografiche-sociali ci permettono di tracciare dei confini e porre un margine all’esorbitante personalità di una protagonista cui non si poteva rubare la scena.

Sullo sfondo c’è la corrispondenza donna-città, ovvero la simbiosi tra Stettheimer e la New York di inizio Novecento, la quale stava attraversando il graduale passaggio da città provinciale a metropoli. È proprio in quel luogo, dove si trasferisce definitivamente con la madre e le sorelle, Ettie e Carrie, agli albori della Grande Guerra che Florine svilupperà la sua arte, libera da ogni categoria estetica. Sull’immaginario di Stettheimer ebbe però una forte influenza la giovinezza raminga vissuta in Europa, tra Germania, Francia e Italia, sempre al seguito della madre Rosetta Walter e delle sorelle in questa insolita famiglia fortemente matrilineare. Durante i suoi viaggi ebbe l’occasione di entrare in contatto con l’arte, il teatro e il meraviglioso mondo dei balletti russi di Diaghilev che avrebbe avuto un impatto decisivo sulla sua creatività. Sarà infatti la visione della grazia innaturale del ballerino Nijnskij a ispirarla a ideare un proprio balletto, ma perché l’idea si concretizzi in capolavoro ci vorrà tutta una vita. 

Mentre la giovane Florine attua i primi tentativi come scenografa, ecco che scoppia la Prima guerra mondiale e la famiglia delle Stetties («The Stetties» come si facevano chiamare madre e figlie) si trasferisce in America e non farà mai più ritorno in Europa. New York diverrà il luogo in cui Stettheimer potrà coltivare la propria visione artistica, che si distanzia in modo sostanziale dagli ideali della sua famiglia altoborghese, aderendo invece a un canone tutto nuovo che trova espressione nell’America eccentrica delle personalità creative – quali Gertrude Stein, Georgia O’Keeffe e Marcel Duchamp – e dei bassifondi, dove si annidano le infinite contraddizioni della città dalle mille luci. 

Nel libro di Morra la figura di Florine Stettheimer viene introdotta per la prima volta attraverso un quadro; perché è lì, nella pittura, che era interamente riversata la sua vita. Non si tratta di un autoritratto, ma di un dipinto floreale: Bouquet for Ettie (1927), che incantò Andy Warhol. In quei fiori dai colori sgargianti, irresistibili, c’è già tutta Florine, ma per vederla davvero dovremo attendere, qualche pagina più avanti, una fotografia in bianco e nero in cui lei è immortalata insieme alle due sorelle: anche nello scatto ci sfugge, lei è l’unica a non guardare l’obiettivo, sembra fissare un punto imprecisato e fuori cornice. Ciò che davvero sappiamo di lei ci viene restituito attraverso frammenti: conosceva più lingue; non disdegnava le avventure; disse sempre «no» al matrimonio; amava Proust e la sua Recherche; era fermamente contraria a ogni discriminazione; per lei l’arte era vocazione e non avrebbe mai accettato un legame che limitasse le sue ambizioni.

Tutte e tre le sorelle Stettheimer rifiutarono il matrimonio e vissero una vita piuttosto singolare per l’epoca, tutta dedita all’arte e alla cultura, probabilmente fomentate dall’esempio materno e, forse, anche a causa del precoce abbandono del padre. A differenza di Ettie e Carrie, che praticavano l’arte perlopiù come passatempo e hobby, Florine cercò di legittimarsi come artista anche se non si piegò mai alle regole capitalistiche del mercato, del resto non ne aveva bisogno per mantenersi. In vita non vendette un quadro, nonostante ne dipinse molti. In Accendo la mia luce e divento me stessa assistiamo alla sua evoluzione artistica seguendola attraverso poesie e immagini, vediamo dunque l’emergere di una sensibilità unica che si serve di ogni strumento per esprimersi: nelle sue opere utilizzò pizzo e cellophane e fece uso di un peculiare tipo di pigmento bianco che dava rilievo al dipinto. Come nota acutamente Eloisa Morra:

«Senza il ritorno a casa nell’Upper West Side lo stile camp che a prima vista disorienta, e con cui oggi la identifichiamo, non sarebbe mai nato».

Possiamo infatti identificare la complessa iconografia di Stettheimer in quello stile all’epoca ancora agli albori cui Susan Sontag, nel 1964, avrebbe dedicato una serie di appunti sfociata in un appassionato saggio: Notes on Camp. Per Sontag il camp rappresenta «la vittoria dello stile sul contenuto», traduceva una sensibilità che era amore per l’eccesso, l’artificio, l’innaturale e fondeva forme di cultura alta con elementi popolari. Lo stile camp secondo Sontag è «qualcosa che non appartiene all’ordine dell’essere, dello spiegabile», un’espressione artistica che resta al di sopra di ogni forma di didascalismo, diventa addirittura performance: esiste forse maniera più perfetta per descrivere Florine Stettheimer? Non potendo afferrare la donna, cerchiamo di circoscrivere il perimetro dell’artista e identificarne lo stile è la maniera più esatta per farlo, del resto:

«I suoi dipinti erano lei, lei assomigliava ai suoi dipinti».

Ritorniamo dunque a quell’autoritratto che è oggi forse la sua più autentica firma: A Model. Nude Self-Portrait (1915). Nel quadro lei si mostra nuda e orgogliosa, ma guardarla ispira una sensazione diversa dalla Maya Desnuda di Goya o dall’Olympia di Manet: nella sua posa non c’è voyeurismo, ma sfida. Eloisa Morra osserva che Stettheimer tiene tra le mani un bouquet «da lei stessa creato» e qui sta tutta la differenza: non sono fiori regalati da un ammiratore o posti come vano orpello estetico, sono fiori da lei dipinti che si fanno metafora profonda della femminilità. Del resto, non dimentichiamolo, la prima immagine che il lettore ha di Florine leggendo questo libro è un bouquet floreale: lei è il fiore. 

Bouquet for Ettie di Florine Stettheimer (1927)

L’amico Marcel Duchamp, che fu ritratto da Florine in innumerevoli occasioni, notava che Stettheimer ha introdotto nella pittura una qualità molto moderna «la definirei jazz». Non c’è davvero definizione più appropriata per identificare la pittura liquida, morbida e quasi onirica di Stettheimer, che non somiglia a nessuna. È stata un’artista capace di creare una strada alternativa: la potremmo forse accomunare a Leonor Fini, altra pittrice d’avanguardia del Novecento, come lei capace di riscrivere le regole della femminilità attraverso l’arte. C’è un messaggio di fondo che accomuna le due artiste: rappresentano qualcosa che c’è e già esiste, ma mediante la rappresentazione gli donano un significato nuovo, inedito. Anche la Sfinge alata di Leonor Fini, simbolo della sua visione pittorica, rovescia l’immaginario della creatura mostruosa con corpo leonino e testa umana trasformandola in un essere etereo, immaginifico, che custodisce in sé mistero, sogno, saggezza ed è quanto mai lontano dall’idea di mostro divoratore.

Il capolavoro di Florine Stettheimer fu Four Saints in Three Acts (1934), ciò che le permise di realizzare l’agognata «opera d’arte totale» avverando infine il suo sogno di scenografa. L’opera, una versione rivisitata della vita di Santa Teresa d’Avila, fu presentata a Broadway da Virgil Thompson su libretto di Gertrude Stein e messa in scena da una compagnia composta interamente da attori neri. Fu una rivoluzione: i costumi realizzati da Florine erano di taffetà colorato, seta, pizzo e nelle sue scenografie naturalmente non poteva mancare il cellophane, un critico infatti la omaggerà creando il termine «Botticellophane».

Asbury Park South di Florine Stettheimer (1920)

Lo spettacolo fu un trionfo e venne ripetuto in numerose tournée con successo crescente, «il più grande successo di pubblico per Stettheimer». Ma è interessante cercarla in un altro quadro: Asbury Park South (1920). È un’opera dal forte sottotesto politico, in risposta alle famigerate Jim Crows laws che imponevano ai residenti neri di Asbury di essere relegati al lato sud della spiaggia. Florine sottolinea visivamente un atto di discriminazione mediante l’arte, ritraendo proprio la sezione sud della spiaggia e cogliendo ciascun bagnante nella propria individualità. Gettava così una nuova luce sulle leggi razziali, dipingendo in modo giocoso e vivace una comunità di fatto ghettizzata: le persone ritratte danzano e giocano, si godono un momento di svago, ci sono alcuni bambini neri che sventolano gioiosi le bandierine americane in occasione dell’Indipendence Day.

Con una visione progressista (persino agli occhi contemporanei), Stettheimer ci dice che queste persone non sono straniere, ma perfettamente integrate nella società americana. Ad Asbury Park South dedicò persino una poesia. Un verso recita:

«Evviva/siamo felici/ è quello che dice la folla/distesa sulla terraferma/lungo la sabbia».

Prima persona plurale, la voce non dice «io», ma «noi», l’identificazione con la folla di Asbury Park South è totale. Lei è dentro il quadro, eppure ne è fuori: si raffigura in disparte, in posa da osservatrice, è la donna con l’ombrellino verde. Più che immagini astratte, Florine Stettheimer ci ha donato il suo sguardo sul mondo. È quello che deve fare un’artista.

Immagine di copertina: A Model (Nude Self-Portrait) Florine Stettheimer, Public domain, via Wikimedia Commons

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