Ci troviamo in Angola, sugli altopiani che segnano il confine con la Namibia, una regione dove la vita si manifesta in tutta la sua cruda bellezza e fragilità. Fabio Geda, con sensibilità da osservatore etnografico, col volume La casa dell’attesa (Laterza) ci introduce nel vissuto di un gruppo di medici italiani appartenenti a Medici con l’Africa Cuamm; il loro operato non è solo un intervento sanitario, ma un catalizzatore di cambiamento sociale, tessendo trame nuove nelle vite di donne e uomini angolani.
L’incontro tra queste culture mediche e le realtà locali non è puramente strumentale; è un dialogo interculturale che rimodella destini individuali e collettivi, creando nuove narrazioni di possibilità e resilienza. Ma il respiro di questo libro non si confina solo tra le pareti della casa de espera. Si espande, abbracciando la polifonia urbana di Luanda, una capitale pulsante con oltre dieci milioni di anime. Le sue strade brulicano di una gioventù vibrante, simbolo di un’economia informale incessante, dove la vendita di ogni bene, anche il più umile, diventa un rito quotidiano di sopravvivenza e intraprendenza. Questo scenario urbano, con le sue dinamiche complesse, offre uno spaccato delle continue negoziazioni tra tradizione e modernità, tra povertà e aspirazioni. Incisiva e ben presente è l’ombra persistente dei ventisette anni di guerra civile, un trauma collettivo che continua a plasmare la memoria e l’identità angolana, influenzando le strutture sociali e le aspirazioni future.
Tra le pagine emergono figure di straordinaria levatura, veri e propri eroi culturali, come Agostinho Neto, medico, poeta e padre della patria. La sua figura incarna la fusione tra sapere scientifico, espressione artistica e leadership politica, un simbolo della complessità e ricchezza del patrimonio angolano. Alla fine di questo viaggio narrativo, l’immagine della casa dell’attesa trascende il suo specifico contesto geografico per assumere una dimensione universale; diventa una metafora potente del nostro intero pianeta, una gigantesca casa de espera dove l’umanità intera si affanna per “dare alla luce” il futuro, o anche solo per affrontare la giornata che verrà. In questa attesa globale, fatta di incertezze e fatiche, risiede tuttavia una speranza intrinseca, una forza inesauribile che spinge l’essere umano a perseverare. È la resilienza antropologica per eccellenza, il filo rosso che lega le esperienze più disparate e ci ricorda che, nonostante tutto, continuiamo a sperare. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Fabio, il tuo volume La casa dell’attesa affronta temi delicati come l’attesa, la speranza e la precarietà. Cosa ti ha spinto a esplorare queste dinamiche in un contesto così specifico? E inoltre, ci sono state esperienze personali o convinzioni che ti hanno particolarmente motivato a scrivere questa storia?
A essere onesti, tutto ha avuto inizio con una telefonata di Giuseppe Laterza. Un giorno mi chiama e con la passione che lo contraddistingue mi racconta del bel rapporto che la casa editrice ha stretto con una ONG di Padova, Medici con l’Africa Cuamm. Dice che hanno già fatto due libri con loro e che pensava di metterne in cantiere un terzo, mi chiede se sono interessato. Io rispondo che, intanto, potremmo andare a conoscerli. E così, in un caldo pomeriggio di giugno, raggiungiamo la loro sede padovana, in via San Francesco. E lì scatta la scintilla. Nel senso che, come si suol dire: ci siamo trovati. O forse ci siamo riconosciuti. Sicuramente io ho riconosciuto in loro pezzi di me: un certo modo di guardare il mondo, soprattutto quella parte di mondo che è ai margini del campo visivo e che per vederla devi deciderlo, devi sforzarti e spazzare via la nebbia creata dalla comunicazione mainstream. Quella parte di mondo al Cuamm la chiamano ultimo miglio, ed è lì dove si fatica di più, dove arrivano meno risorse, dove l’interesse dei governi locali e internazionali langue e quello dei mezzi di comunicazione sfarina nella distrazione. Quindi potremmo dire che all’inizio di tutto c’è stato un incontro di sguardi: il loro, che arriva da settant’anni di storia, e il mio, che partendo dagli anni di lavoro nel campo del disagio minorile mi ha portato a scrivere storie come Nel mare ci sono i coccodrilli, o romanzi come Una domenica che racconta l’inversione del rapporto di cura tra genitori e figli quando i figli diventano adulti e i genitori invecchiano – e anche quella, la vecchiaia, è infatti una dimensione ai margini delle nostre società, che desiderano l’eterna giovinezza.
Dunque in quel pomeriggio a Padova accade qualcosa di speciale?
Io ero in cerca di una suggestione e don Dante Carraro, il direttore, raccontandomi i diversi progetti del Cuamm spalmati su nove paesi dell’Africa subsahariana a un certo punto arriva all’Angola, mi parla di Chiulo, un ospedale rurale sugli altopiani al confine con la Namibia, e di un progetto dal nome affascinante, la casa dell’attesa, in portoghese a casa d’espera. E niente, io quando ho sentito quel nome ho pensato: eccola lì, la suggestione. Il concetto: l’attesa. Che nella parola portoghese, espera, odora anche di speranza. Perché attendere vuol dire un sacco di robe diverse. C’è l’attesa frustrante che finalmente inizi a piovere, l’attesa di chi vende per strada, c’è la dolce attesa di un figlio o una figlia che stanno per nascere. C’è l’attesa che è apertura radicale all’altro. Hypomonê, come diceva Simone Weil usando un termine greco ripreso dal Vangelo di Luca: la redenzione attraverso l’attenzione. C’è l’attesa caparbia di chi si occupa di cooperazione in luoghi come Chiulo, luoghi che ti chiedono di stare a lungo in un posto, insieme a una comunità, di lavorare sulla presenza prima di arrogarti il diritto di decidere cosa sia meglio fare o non fare. Ho provato a ragionare sul rapporto che abbiamo con il tempo e sulla dipendenza prestazionale dai risultati: una delle cose più attese (appunto) dalle società contemporanee. Insomma, era scattata la scintilla. A quel punto ho capito che il libro lo avrei scritto, anche se ancora non sapevo che forma avrebbe avuto. Ho diviso la ricerca in tre fasi. A marzo del 2024 sono andato in Angola per otto giorni: per osservare, raccogliere suggestioni e provare a immaginare cosa raccontare. Ah, e poi, diciamo: per emozionarmi liberamente. Tornato a casa ho elaborato la parte più emotiva dell’esperienza e mi sono messo a studiare: ho letto, guardato, ascoltato, incontrato persone informate, discusso, e poi sono tornato a giugno, tutto il mese. Poi a giugno sono rimasto prima qualche giorno a Luanda, la capitale. Città pazzesca, qualcosa come dodici milioni di persone. Ho fatto interviste, avevo chi mi portava in giro per la città e me la raccontava. Poi ho raggiunto gli altopiani, la provincia del Cunene, e quindi Chiulo.
Ed è lì che incontri per la prima volta la casa de espera. Ci racconti cos’è?
Chiulo in realtà è una manciata di case, una strada, una chiesa e l’ospedale diocesano con cui il Cuamm collabora da venticinque anni. Ed è proprio accanto all’ospedale che si trova la casa dell’attesa. La casa dell’attesa è una strategia rivolta a contrastare la mortalità perinatale, è un posto in cui le donne della provincia possono trascorrere l’ultimo mese di gravidanza, così da essere letteralmente a due minuti a piedi dalla sala parto in caso di complicazioni. Perché una delle prime cause di morte delle donne e dei bambini durante il parto, in quella regione, è il fatto che i villaggi si trovano a ore di distanza dall’ospedale. Quella delle case de espera è una strategia frugale: sarebbe, per così dire, qualcosa di non troppo difficile da realizzare, riproducibile, attuabile in tempi abbastanza brevi e magari a costi contenuti. Ma intendiamoci, non si tratta di una casa come la immaginiamo noi, un edificio con le stanze, i letti e tutto quanto. È “casa” secondo la tradizione del Cunene: assomiglia a un kimbo, uno di quegli insediamenti rurali frutto della lunga tradizione delle pratiche sociali e culturali del posto. Ci sono quindi alcune strutture che servono a proteggere dal sole, oppure dall’acqua durante la stagione delle piogge, ma è soprattutto – come tu sai bene, anzi, come io ho imparato a dire da te – un insieme di relazioni, un’esperienza dell’abitare che parte da pratiche collettive.

Il tuo stile narrativo è spesso caratterizzato da una prosa delicata e poetica, anche quando affronta temi difficili. Come bilanci questa sensibilità con la necessità di raccontare una realtà spesso così dura?
Il passo della mia scrittura è in parte consapevole e in parte un meccanismo inconscio. Partiamo dal secondo: il modo in cui scriviamo riflette il nostro modo di muoverci nel mondo. L’indole di chi scrive permea nella scelta delle parole, nella scelta delle scene o dei dettagli. È inevitabile. Io so di avere, non solo come autore ma anche come persona, come amico, come fratello oppure come fruitore di letteratura o cinema, una predilezione per la delicatezza. Mi piace bussare alla porta prima di entrare nella vita degli altri e mi piace chi fa la stessa cosa con me. È una questione di rispetto. Poi però – e qui entriamo nella parte consapevole della scelta – sono convinto che levità e poesia possano assumere un valore politico nel momento in cui si oppongono alla violenza e al voyeurismo delle narrazioni quotidiane dei media e delle reti sociali. In un’epoca di flussi di parole e immagini che feriscono lo sguardo, scegliere la delicatezza è un atto di disobbedienza. La leggerezza, quella che Calvino indicava come una sfida al peso del mondo, diventa un gesto politico: rallenta il tempo, sottrae lo sguardo all’urgenza del clamore, restituisce profondità alle cose, rifiuta il cortocircuito dell’indignazione istantanea. Prova a ricucire ferite invece che strappare il velo per esibire l’orrore. Ogni metafora che sostituisce un urlo è un gesto di cura collettiva. Non si tratta, quindi, di tacere le ingiustizie o il dolore, ci mancherebbe: ma di nominarli con parole capaci di custodire la complessità, senza consegnarli in pasto all’algoritmo della paura.
All’interno di La casa dell’attesa hai dunque utilizzato particolari scelte narrative o stilistiche per rendere al meglio il senso di difficoltà della vita nei luoghi marginali angolani che hai vissuto?
Direi due cose. La prima è che sono partito dalla voce delle persone e dai loro racconti. La seconda è che ho messo a nudo il mio senso di inadeguatezza. Mi sembrava importante non trasmettere l’idea che io, stando lì per qualche settimana, potessi aver compreso a fondo il peso della quotidianità di chi vive nella provincia del Cunene o la fatica e il dolore dei ragazzi di strada di Luanda. Piuttosto ho preferito far arrivare ai lettori italiani la mia fatica di fronte a quelle vite, perché con quella, ho pensato, molte persone avrebbero potuto empatizzare. Umiltà e inadeguatezza sono sentimenti onesti e dovrebbero essere alla base di ogni viaggio nell’altrove e nell’alterità.

Credi che la letteratura possa svolgere un ruolo nel sensibilizzare l’opinione pubblica su temi come il diritto alla salute non soltanto per chi se la può permettere ed è nato nel posto giusto del mondo? Questo volume ha in qualche modo influenzato la tua prospettiva sul tema della salute pubblica?
Essere curati è un diritto umano fondamentale. Non è mai troppo ripetere che la sanità deve essere pubblica: perché è responsabilità dello stato garantire le cure ai cittadini. Così come dovrebbe essere universale e gratuita, per poter curare chiunque. E di qualità, perché la salute di tutte e tutti deve essere tutelata nel miglior modo possibile. Diciamo quindi che parlando di salute, oggi, anche partendo dalla salute di una provincia angolana, non si può prescindere dal puntare il dito su cosa sta accadendo alla nostra sanità, che dovrebbe essere pubblica, eccetera. Poi, allargando lo sguardo, se ci sembrano giustamente inaccettabili alcuni disservizi italiani, possiamo provare a comprendere la condizione di chi, da quel punto di vista, è messo peggio, di chi viene ricoverato in ospedali senza elettricità, senza acqua corrente, senza medicinali, senza strumenti diagnostici. Penso che la letteratura e in generale l’arte possa contribuire alla riflessione, alla sensibilizzazione e all’informazione. Certo, deve riuscire a farlo senza rinnegare se stessa: deve farlo consapevole del fatto che il valore di un’opera non è legato al suo impegno civile e sociale, ma ad altre variabili quali il linguaggio, la forma, la struttura. Quando l’etica diventa prioritaria rispetto all’estetica, e quando il messaggio conta più del modo in cui viene espresso, non è di per sé un problema, ma semplicemente non stiamo parlando di arte: forse è giornalismo, forse altro, o nel peggiore dei casi è una forma di propaganda.
Quali sono le principali sfide che, secondo la tua ricerca e la tua sensibilità, affrontano oggi i medici che decidono di andare a lavorare per il Cuamm?
Provo a risponderti facendo un esercizio di immedesimazione. Se io fossi un medico, al netto delle fatiche tecnico-logistiche dovute alle condizioni di lavoro, la mia sfida principale credo sarebbe quella di cui parlo nel libro: abitare l’attesa. Mi spiego. Fare il medico nell’ultimo miglio è un’esperienza straordinaria, ma anche molto logorante. Ti riporto un dialogo avuto con Laura Villosio mentre ero in Angola. Laura è capo-progetto a Chiulo ed esperta di salute pubblica. Un giorno mentre passeggiavamo nel mato, la savana arboricola che circonda l’ospedale, mi ha detto questa cosa, che tutti sognano una cooperazione tipo: vai in un posto, contribuisci a farlo crescere e quando sta in piedi da solo ti sposti da un’altra parte. Fosse sempre così sarebbe una meraviglia. Ma a volte il lavoro consiste nell’evitare regressioni eccessive, nel difendere la posizione, o bisogna accontentarsi di minuscoli passi avanti. Detto ciò, non è che si abbandona la gente e si va via perché la timeline del progetto era diversa. Ecco, credo che se fossi un medico e mi occupassi di cooperazione la mia sfida principale sarebbe prendere atto dei tempi. Del fatto che magari i risultati dell’intervento su un territorio non li vedrò io, ma qualcuno dopo di me. Come mi ha detto una volta Francesco Di Gennaro, medico: bisogna saper fare la storia senza pretendere di vederla fatta.