28.09.2025

Cantare nel buio. Un viaggio perpetuo chiamato vita

Considerazioni sul romanzo più famoso e sofferto di Maria Corti

Nel finale del celebre Berlin Alexanderplatz, Alfred Döblin fa dire alla voce fuori campo che accompagna tutto il romanzo: «Molte disgrazie accadono quando si cammina da soli. Se ci sono persone, è già diverso. Bisogna abituarsi ad ascoltare gli altri, perché quel che dicono gli altri riguarda anche me. Così capisco chi sono e a cosa posso mirare. La mia battaglia si combatte ovunque qui intorno, devo stare attento, perché prima che me ne accorga toccherà anche a me. (…) Cos’è quindi il destino? Se sono solo, è più forte di me. Se siamo in due, è più difficile che sia più forte di me. Se siamo in dieci, ancora più difficile. Se siamo in mille o un milione, è difficilissimo». Il senso di possibile redenzione, insieme corale e individuale, presente in questo romanzo tedesco degli Anni Venti del Novecento torna alla mente quasi di colpo nel leggere il romanzo più famoso e sofferto di Maria Corti, Cantare nel buio, recentemente riedito da La Tartaruga per la cura, e con una postfazione davvero illuminante, di Benedetta Centovalli. Torna alla mente sia per una certa ambientazione socio-culturale, incentrata sulla figura degli operai e sulla crisi del passaggio dalla campagna alla città, sia per alcuni spunti tematici, questi sia a livello di trama (per esempio, l’omicidio per soffocamento della bella ma traditrice Armida) che a livello di personaggi (l’ingenuità ma anche l’idealismo di Faustino, molto simili per certi versi a quelli di Franz Biberkopf).

Naturalmente il romanzo di Corti riluce di luminosità propria, ma il citare possibili fonti eccellenti e insospettate dà la portata di quella che non è scorretto definire come l’impresa letteraria che si colloca al centro della vita della studiosa milanese, anche in senso cronologico. La prima stesura del testo risale al 1948 (ma con continue e anche sofferte revisioni, a partire dal titolo, come quella per la plaquette bresciana del 1981), quando Corti era insegnante in un Ginnasio di Chiari, sulla tratta ferroviaria di Milano-Brescia, e la studiosa si trovava a fare la pendolare con Milano, per motivi di ricerca; era in quelle occasioni che si trovava partecipe e testimone del destino dei nuovi operai pendolari tra i piccoli centri del bresciano e la grande città industriale.

maria corti

Etimologicamente “crisi” significa “scelta, decisione”, e la crisi qui rappresentata è quella già accennata del passaggio dal lavoro nei campi alla fabbrica nella città e del passaggio da un vecchio morente a un nuovo nascente, ed è incarnata nel moto perpetuo del treno carico dei proto-pendolari discendenti dalla fiera «stirpe longobarda»; treno già raffigurato all’inizio del libro come una mitica «cosa nera» che attraversa al mattino presto e al crepuscolo la pianura lombarda. Attorno a questo viaggio quasi soprannaturale – se non fosse per la realtà cronologica (l’immediato dopoguerra), la scomodità del viaggio (mancavano molti vagoni distrutti dai bombardamenti, il che spiega l’impiego di carri bestiame) e lo scorrere delle stagioni, come dei problemi quotidiani di sopravvivenza –, si innestano le vicende dei vari personaggi con i loro drammi e speranze quotidiani. Benedetta Centovalli, nella sua postfazione, li convoglia in due principali gruppi, nei quali però la coralità non si esaurisce: quello di Maso Metelli, che rappresenta la coscienza storica contadina, e dei suoi tre figli, che invece incarnano il mondo razionale della fabbrica (Faustino, Bortolo e Lento); e quello di Giovita, che assieme ai suoi figli Veronica, Armida e Carletto rappresenta l’immaginazione e la libertà di creazione. In particolare sia Faustino che la fidanzata Armida portano le due diverse istanze in un terreno che diventa quasi utopico, di pura giustizia e assoluta libertà.

L’accordo epico su cui si intona tutto il romanzo non venne percepito nel 1982 da Italo Calvino, troppo attento alla realtà storica rappresentata per coglierne la sua trasfigurazione emblematica e simbolica; quando Corti, dopo l’ennesima revisione, e seguendo il suo intimo desiderio di essere prima di tutto una scrittrice e poi una studiosa, inviò il dattiloscritto in lettura a Einaudi, Calvino ne percepì, in maniera erronea, il tema «circoscritto in una storia tutta minore come quella del neorealismo», e quel che è peggio incoraggiò Corti a concentrarsi sull’imminente pubblicazione del suo libro su Dante, toccando così il tallone d’Achille dell’autrice, perennemente preoccupata che la sua figura di studiosa oscurasse quella di scrittrice. Il risultato fu una lettera abbastanza piccata che Corti inviò a Calvino, ma specialmente la dilatazione dei tempi di pubblicazione del romanzo, che infine vide la luce per Bompiani nel 1991, subito accolto con grande favore dalla critica più qualificata, ma quando Corti aveva all’attivo già altri romanzi, il che forse non ne favorì la ricezione come di una primizia.

maria corti
Edizione Bompiani, 1991

Quel che qui interessa, però, è capire come e perché Cantare nel buio, riedito nel 2025 nella stessa versione del 1991, abbia superato la prova del tempo e possa oggi essere recepito in tutta la sua ricchezza di opera letteraria effettiva. Quello che Maria Corti riteneva essere il suo romanzo più autobiografico, in effetti è anche quello il cui messaggio si può definire più universale, proprio a partire dalla natura dello sguardo con cui aveva osservato la realtà che la circondava: quello di Corti è uno sguardo umanamente compartecipe del destino della povera gente pendolare, talmente immerso nei loro sogni e desideri da ritagliarsi nel libro un piccolo spazio di presenza (la vicenda della insegnante rimasta chiusa dentro il vagone); in questo senso, la storia, grande e piccola, si riassume appunto nel narrare in quanto testimoni, e quindi nel salvare dall’oblio l’esistenza dei più miseri. La storia che entra nella letteratura, in questo senso, è già salvata.
E poi la perizia linguistica, propria di chi della lingua si è appropriato non solo nello studio, ma nella sostanza creativa: la scelta, nelle varie revisioni, di cambiare le strutture sintattiche e forme lessicali in una precisa direzione decisamente allegorica, e specialmente l’uso di un italiano colloquiale preciso nei dialoghi (invece del dialetto), non solo hanno salvato il testo dal rischio del neorealismo, ma restituiscono oggi tutta la freschezza di un romanzo il cui cammino di scrittura risale ormai a quasi ottant’anni fa.

Infine. Nel ricco apparato finale del libro sono raccolte, oltre alla succitata postfazione, le importanti recensioni del 1991 apparse nei quotidiani, assieme a una breve nota sulle varianti testuali redatta da Nicoletta Leone. Prendendo spunto da ciò che scrisse Clelia Martignoni, che sottolineava con forza come «il doppio e accattivante registro» di Corti portasse a una proficua «inevitabile affinità di strumenti di lavoro tra narratrice e studiosa» – il che portava Martignoni a formulare il felice parallelismo tra opere teoriche come Il viaggio testuale (1978) e l’idea del testo narrativo come metafora del viaggio che si era incarnata in tutti i romanzi fino ad allora editi da Corti –; prendendo spunto da ciò, e dall’idea rilevata da molti critici di una freccia del tempo che nel romanzo assume un andamento circolare e dunque vincolato; non è azzardato ipotizzare che Cantare nel buio fosse, nel 1982 come lo è adesso, del tutto in parallelo al libro di Corti su Dante, La felicità mentale: quello che non colse Calvino fu dunque proprio l’attualità del viaggio allegorico, umano e quindi letterario, di Maria Corti, tanto improntato a quello, letterario e quindi umano, di Dante.

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