Ci sono molti modi di vivere dentro una tragedia, si dice a un certo punto di La stanza accanto; come a intendere che se la tragedia è una forma quasi oggettiva che può assumere l’arredamento del mondo intorno a noi, allora possiamo cercare di non identificarci con essa, e addirittura fare un passo indietro e guardarla, senza per questo smettere di sentircene profondamente coinvolti. Nell’ultimo film di Pedro Almodòvar, la tragedia mette due donne una di fronte all’altra, come davanti a uno specchio. La prima, Martha, ex reporter di guerra, malata di cancro allo stadio terminale, chiede di essere guardata nel proprio spegnersi, mentre decide di anticipare la morte con l’aiuto una pillola per l’eutanasia; l’altra, Ingrid, scrittrice che si muove tra saggio e (auto)finzione, ha paura di guardare ma sente di doverlo fare, di doverlo imparare a fare. Il regista le fa re-incontrare nella città della loro giovinezza, New York, e poi le trasporta in una casa vacanze in mezzo a un bosco, spoglia e isolata, dove dedicarsi soltanto all’attesa del momento giusto in cui il proposito di Martha sarà messo in atto.
Nel frattempo però, anche in questo tempo così teso e in questo spazio protetto, continua a scorrere quasi sottotraccia la corrente di oggetti, persone, ricordi e storie dai quali la vita delle due è stata ed è ancora abitata, nonostante tutto. Ingrid per esempio mantiene un contatto con un terzo personaggio, ex amante di entrambe, un uomo un tempo carnale e ora invece chiuso, divorato dal pessimismo e dallo sconforto per le catastrofi ambientali e politiche della contemporaneità; lo fa quasi di nascosto dall’amica, con la circospezione con cui non si vuole ricordare il persistere del mondo esterno a chi intimamente si sta preparando a lasciarlo. Più che un percorso lineare verso un punto preciso, l’avvicinarsi al confronto con la fine della vita è per le protagoniste un continuo viavai tra sé stesse e ciò che è fuori di loro, tanto che l’evento esiziale stesso accade infine in un momento apparentemente non pianificato, quasi di distrazione, in cui Ingrid sembra per un istante aver distolto lo sguardo. D’altronde, si sottolinea più volte nel film, vivere in una tragedia intacca la capacità di dare attenzione a ciò che più conta (o contava fino ad allora) nella propria esistenza.

Con La stanza accanto Almodòvar pare voler cercare, attraverso il suo cinema, un’alternativa a questa dispersione dell’attenzione, per scongiurare il rischio di arrivare al punto di non vedere più. Da subito Martha e Ingrid sono collocate dentro una trama affollata ma ordinata di segni e di motivi, che mappa la loro esperienza in quanto donne, adulte, occidentali e intellettuali, e che sembra diradarsi man mano che si procede. In questo movimento il film sembra farsi più scarno ed essenziale, liberarsi del superfluo per stringersi intorno alla relazione tra le due. Ma quest’impressione non risulta da un’opera di sottrazione (che guarderebbe all’approssimarsi alla morte come a un progressivo annullamento), ma, al contrario, si sostanzia nell’echeggiare e ritornare delle stesse tracce visive, in uno schema di continue ripetizioni e variazioni. Alle finestre sui grattacieli della metropoli si sostituiscono le vetrate sugli alberi della foresta nella nuova casa, mentre libri, frutta, abiti, mobili e superfici dai colori sgargianti si ripresentano nei diversi scenari in fogge sempre diverse. Il cadere della neve ricorre sempre accompagnato dall’elegia finale del racconto The dead di James Joyce, rievocato tra citazioni (di Martha, dal suo letto d’ospedale) e rielaborazioni (la trasposizione cinematografica omonima di John Huston guardata durante una notte insonne; l’omaggio di Ingrid nel finale).
Il testo filmico di La stanza accanto è un universo in cui perfino la morte può essere ridotta a segno tangibile e visibile, a una busta (“così leggera”) con scritto “Addio”, da cercare in mezzo al disordine nell’appartamento di una vita, o alla porta rossa chiusa di una stanza in una casa transitoria. Persino il corpo attoriale stesso diventa un dispositivo su cui proiettare e ri-costruire un immaginario. In due diverse dissolvenze (prima e dopo la morte) il volto di Martha/Tilda Swinton si perde nello sfondo di colore puro (prima bianco poi verde chiaro) della superficie su cui lei è distesa; il suo cadavere è ritrovato rischiarato da una luce abbacinante, come quella che colpisce i soggetti dei dipinti di Edward Hopper Morning sun e People in the sun – quest’ultimo, significativamente, anche appeso a una parete della casa affittata (forse autentico, forse una copia, si chiede Ingrid). Tutti questi rimandi di senso amplificano la risonanza degli elementi della messa in scena, conferendo loro un valore in sé quasi assoluto, abissale, fino alla duplicazione finale ed estrema: una figlia quasi identica alla madre, che si stende viva sulla sdraio su cui l’altra ha scelto di morire. La vita del cinema, nel suo ostinarsi a trattenere e riorientare lo sguardo dello spettatore, prosegue oltre la morte dei corpi.
Almodòvar è un autore totale che da sempre crede nel potere della narrazione filmica di riempire vuoti e assenze (come nello splendido finale di Dolore e gloria, in cui si scopre che il ricordo non era già, dall’inizio e da sempre, nient’altro che cinema, già da sempre), di reggere l’urto della tragedia e di confrontarvisi con lucidità (Parla con lei, ma anche Madri parallele). La sua è una ricerca del realismo dei sentimenti e delle ambientazioni attraverso la stilizzazione e lo straniamento, in film al tempo stesso freddi e appassionati, che crescono intorno a scatole cinesi, incastri, geometrie e rime visive. Oggetti cinematografici labirintici, ricolmi di dettagli, e tuttavia levigati e controllati in ogni loro piega. Sotto questo punto di vista, nella sua coerenza con la poetica almodovariana, La stanza accanto pare l’esatto opposto di un’altra opera vista recentemente, cioè Megalopolis di Coppola. Se quest’ultimo film infatti è un capolavoro di anarchia visiva, in cui l’autore sembra essere sparito, dissolto dalla volontà debordante delle immagini stesse, quello di Almodòvar è un diorama dalla struttura calibratissima, in cui invece l’autore sembra essere dappertutto. Nella loro differenza, le due pellicole però paiono radicarsi in una simile consapevolezza della necessità per la funzione autoriale, oggi, di sfuggire alla mezza misura, all’addomesticamento. In un presente in cui il cinema è solo una tra le molte macchine che producono immagine, sembrano dirci sia Coppola sia Almodòvar, non si può essere autori a metà, “quanto basta”: bisogna o rinunciare del tutto a esserlo, o esserlo fino all’estremo.
Immagine di copertina: frame del film