30.06.2025

Fuori di Mario Martone, una storia di spazi

Un film d'autore per raccontare la detenzione, l'ispirazione artistica e la solitudine di Goliarda Sapienza, condivisa con anime rinchiuse come la sua

C’è un filo invisibile che attraversa la molteplicità di ambienti mostrati in Fuori, il film sull’esperienza a Rebibbia di Goliarda Sapienza e sul suo rapporto con le altre detenute, legando luoghi differenti come un carcere e una profumeria, appartamenti borghesi e angoli di natura selvatica, bar e stazioni ferroviarie o metropolitane, piazza del Popolo e via dell’Acqua Bullicante. Ma da cosa si dipana? Dallo sguardo di un regista (Mario Martone) a cui delle biografie degli artisti interessa soprattutto il loro muoversi tra la vastità del mondo e le angustie della società (era così anche per il Leopardi di Il giovane favoloso)? Dai corpi di tre attrici (Valeria Golino, Matilda De Angelis, Elodie) capaci di ospitare e assorbire nella loro presenza tutto ciò che sta loro attorno, anche quello che resta fuori campo (il dolore esistenziale di Goliarda, l’abbandono fragile e spericolato di Roberta alla droga e alla lotta armata, l’amore da favola di Barbara)? Da una sceneggiatura (scritta da Martone con Ippolita Di Majo) che fa a meno della linearità spazio-temporale e usa la psicologia per far avvicinare e allontanare le protagoniste tra loro, invece che per studiarle da un punto di vista esterno? E però la tessitura di Fuori è tutto fuorché il risultato di una formula. Forse, più che di filo si dovrebbe parlare di raggio, visto che durante e dopo la visione ciò che rimane più impresso è soprattutto la luce, diffusa e dilagante; ma anche qui non si sa se sia meglio dire luce o, piuttosto, luci, di colore sempre diverso: azzurre, dorate, bianche, rosa.

Fuori Martone
Locandina del film

Con una naturalezza disarmante, Fuori assume una postura poetica di fatto radicale: credere nel potere trasformativo del cinema, attraverso la mediazione dei riferimenti di cui le immagini del film sono imbevute (si intravedono Rossellini, Antonioni, Pasolini, la Nouvelle vague francese). Questa scelta agisce innanzitutto sui punti cardinali e i connotati valoriali dello spazio, per farne non un semplice contenitore, o uno sfondo distinto dall’azione, ma piuttosto un tutt’uno con i soggetti che ci si muovono dentro e a cui la macchina da presa rivolge l’attenzione. Ogni figura, gesto, o scenario ha dignità in sé, nell’essere guardato in quell’istante e in quel determinato modo, e non in un ordine altro, preesistente al proprio entrare in scena. Il contrario di quanto accade nei salotti intellettuali e borghesi da cui Goliarda si fa cacciare, dove si parla per ipocrisie manifeste e imperativi in codice, al solo scopo di controllare l’altra persona e di assegnarle un posto in un microcosmo egoriferito. In Fuori, la libertà del guardare – ma anche del farsi chiudere gli occhi, come nella scena usata come locandina del film – crea connessioni e similitudini inattese, talvolta controintuitive, aggirando la logica concentrazionaria nei suoi presupposti fondamentali. Chiudere lo spazio entro l’inquadratura serve infatti a Martone per farlo respirare meglio e sottrarlo ai significati che gli sono affibbiati in automatico. Da una parte, si ha un’impressione di moltiplicazione dello stesso luogo, di natura indefinita, il cui eco riverbera in situazioni diverse e apparentemente opposte come una cella e un retrobottega, il tunnel di ingresso in carcere e il sottopassaggio della stazione. Dall’altra, lo spazio si apre e si espande di continuo, in un’esplorazione che rivela dovunque angoli nascosti e novità sorprendenti: così, capita di trovare un giardino abbandonato tra le palazzine ordinate dei Parioli, un bagno dietro lo specchio di un negozio, una cucina dietro una libreria, o ancora succede che da una cassapanca o da una valigetta salti fuori una miriade di storie scritte, vere o inventate.

Nel dilatare (e spesso confondere) in queste maniere il perimetro dei percorsi delle sue protagoniste, Fuori arriva a immaginarsi una forma di vita nuova. Un’utopia (il gesto ha un profondo valore politico) in cui le categorie si rivelano inadeguate e perdono la presa sull’esperienza: i confini tra dentro e fuori sono annullati, i ruoli di madre e figlia si ribaltano, il concetto di amore si carica di sfumature fino a esplodere in mille rivoli e disperdersi nell’aria. Resta solo la verità immediata dell’esserci qui e ora insieme agli altri e alle altre, senza alcun bisogno di rifarsi a un principio di autorità; come nell’incipit dell’Arte della gioia, dove la piccola Modesta si mette in scena da sola («Ed eccovi me») affermando sé stessa – in spregio all’astrazione del cogito ergo sum cartesiano – solo in virtù della sensazione (il peso del ceppo, le palme delle mani che bruciano) e della pulsione sessuale (l’eccitazione innescata dalle grida della sorella e la scoperta della masturbazione).

Fuori Martone
Scena tratta da Fuori

Si tratta, forse paradossalmente, dell’indicazione di un modo di spersonalizzare lo sguardo, per cercare invece di abbracciare l’insieme; spostare il puro ego al margine della scena e portarvi al centro non solo le altre persone (questo di Martone è un film in cui vediamo un uomo portare in auto tre donne al mare e poi, una volta lì, ritirarsi in disparte a fumare, per lasciarle tra loro a mangiare, ridere e chiacchierare), ma anche il resto dell’universo inanimato. Su FilmTv Giona Nazzaro ha ben definito Fuori come «l’immagine profondamente commovente di un corpo come se fosse di passaggio»; una narrazione dove gli spazi sono personaggi e viceversa gli umani sono ambienti vivi, entità mobili e fluttuanti che da un attimo all’altro potrebbero mutare, o addirittura sparire, per lasciare posto a quello che sta al di là di loro. È ciò che avviene nel finale e, in particolare, nell’ultima immagine alla stazione, punto massimo di dispersione del focus visivo e di scivolamento dall’individuo a una prospettiva più ampia, quasi disincarnata (come intuisce giustamente Emiliano Morreale in un articolo per Snaporaz, accostandola alla conclusione del Viaggio in Italia rosselliniano). Ma questa attenzione estroflessa, rivolta oltre, richiede a sua volta di trovare, costruire, scegliere un luogo da abitare, con cui coltivare una relazione, e dove dare una forma al proprio sé in maniera non solipsistica. Nella vita di ognuno non c’è opposizione tra il dentro e il fuori, semmai sono l’uno la premessa necessaria all’altro; anche essere rinchiusi in un carcere, perciò, può voler dire esprimere un certo stare nel mondo, con una propria personalità, e non semplicemente isolarsi a subire passivamente una punizione. Forse è questo che Goliarda Sapienza suggeriva quando, nella clip televisiva mostrata dal film nei titoli di coda, pronunciava queste parole in mezzo a una platea di uomini perplessi e un po’ infastiditi: «Lì dentro l’individuo si travisa talmente che il carcere diventa la propria casa, ed è come per noi quando magari la nostra casa non ci piace proprio tanto, che non viene il sole, o fa freddo, e però ci si abitua a queste cose, e così anche per loro il carcere diventa il proprio posto di elezione […] Io non dico che il carcere è bello, però il carcere è come il fuori».  

In copertina: scena tratta dal film

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