Un buio pieno di corpi, dove un uomo si muove: è nella pancia di una nave, ci si metterà un attimo a capirlo, mentre una voce femminile fuori campo – una lettera – ci fa sapere che quell’uomo è vivo quando sembrava impossibile. L’uomo riesce finalmente a risalire sul ponte, e il senso del suo viaggio si palesa: la Statua della Libertà. New York, la terra promessa. Ma la Statua della Libertà, grazie alla prospettiva, è storta: certe promesse non sono fatte per essere mantenute.
The Brutalist, nei suoi – criticati, osannati- 215 minuti di durata è un’opera gigantesca di decostruzione di un sogno. Leone d’Argento alla regia per Brady Corbet, dopo essere stato sulla bocca di tutti per buona parte della Mostra del Cinema di Venezia, e il giorno dopo la premiazione, l’annuncio che A24 ne seguirá la distribuzione: l’ambizioso progetto di Corbet é stato una scommessa azzeccata, probabilmente piú della stessa titanica impresa del suo protagonista.
Adrien Brody è László Tóth, un architetto ebreo ungherese sopravvissuto a Buchenwald, e arrivato negli Stati Uniti per ritrovare un cugino, emigrato molto tempo prima. In Europa era un professionista stimato, ha costruito biblioteche e sinagoghe: dopo la guerra, è forzato a ricominciare da capo, dall’altra parte dell’oceano. Nel vecchio continente rimangono la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy), internate in un altro campo e ritornate in Ungheria grazie all’aiuto di alcuni soldati sovietici.
Il brutalismo, corrente a cui fa riferimento il titolo, esalta l’impiego di materiali grezzi e funzionali, come il cemento a vista – ritornerà nella narrazione – ma Corbet non utilizza lo stesso approccio per il suo film: è girato in pellicola 70 mm, l’immagine è densa, ricca di dettagli. L’impianto è monumentale: non solo nella durata, ma nella divisione (forse un po’ tarantiniana) in Ouverture, Atto primo, Intermezzo, Atto secondo, Epilogo. Corbet ha cercato per dieci anni di realizzare questo film, co-sceneggiato insieme a Mona Fastvold, con cui aveva già lavorato ai suoi precedenti L’infanzia di un capo e Vox Lux: i progetti più attesi e con una lenta costruzione rischiano di strabordare da ogni dove una volta realizzati, ma Corbet è riuscito a tenere insieme quasi tutti i fili.
Tóth arriva a New York poverissimo, inizia a lavorare dal cugino Miller (Alessandro Nivola) e già qualcosa scricchiola: il cugino ha inglesizzato il proprio cognome, la moglie cattolica di lui insinua cose sgradevoli sul conto di questo parente ebreo dal naso rotto. Una commissione da parte del rampollo di un magnate di zona, il giovane Van Buren (Joe Alwyn) sembra una svolta, ma qualcosa va storto anche qui. E poi entra in scena Van Buren padre (Guy Pearce), che si fregia di riconoscere la modernità, che al proprio arco narrativo di milionario che si è fatto dal niente vuole aggiungere il titolo di mecenate, e incarica Tóth di costruire un centro polifunzionale in memoria della defunta madre. Ha quasi carta bianca, salvo accogliere le richieste del Comune, che vuole una cappella cristiana, e dover lottare con un uomo di fiducia di Van Buren, che vorrebbe contenere i costi.
Tóth ama l’architettura perché le opere che progetta, dice, sono destinate a stimolare delle rivoluzioni nelle generazioni successive: l’uomo scompare, quello che crea rimane. Nel suo nuovo lavoro si allontana dai disegni e dalle linee per cui era noto in patria, e si avvicina per l’appunto al brutalismo. Cuore del suo edificio, un gioco di luci che proietterà sull’altare, al momento giusto, una croce, un simbolo che non gli appartiene.
Per la prima parte del film, la sua creatività (e la dipendenza da oppio) è al centro, mentre si gettano i semi per il ricongiungimento della moglie e della nipote: con i soldi e le connessioni di Van Buren tutto è possibile. Dopo l’intermezzo, cambiamo lo sguardo. L’arrivo della famiglia di lui getta una luce diversa su tutto quello che gli è stato offerto: dormire in una dependance mezza in costruzione, gli sguardi predatori dei ricchi americani, i loro capricci e la loro consapevolezza di poter gestire la vita degli altri come più desiderano. Gli anni passano, la costruzione del centro si ferma: la nipote, una volta muta, decide di trasferirsi in Israele con il marito per crescere il proprio figlio con i parenti di lui e fare il suo «dovere di brava ebrea», Tóth e Erzsébet cercano di dissuaderla, sale la tensione mentre spiegano che il loro voler stare in America non li rende meno ebrei, alla fine si scusano tutti gli uni con gli altri per aver perso le staffe (a parte il marito di Zsófia, che non si scusa con nessuno).
Ormai i dubbi sul sogno americano, a questo punto, sono pochi: la vita è faticosa, e il messaggio è chiarissimo, «Noi qui vi tolleriamo». Gli Stati Uniti come la società dove ci si assimila o si viene tollerati – o, anche, si viene del tutto esclusi e costretti a vivere in un settore separato della comunità, come succede invece agli afroamericani: l’opzione di una convivenza paritaria non è presa in considerazione.
Corbet ha detto che con The Brutalist voleva raccontare il capitalismo, con le sue promesse e le sue sopraffazioni: il momento più violento del film avverrà in Italia. Prima, assistiamo a una scena quasi onirica in cui la camera si muove tra i marmi di Carrara, e uno scalpellino racconta del suo unico viaggio fuori dal paese: era per andare a picchiare il corpo di Mussolini (in Sala Grande, qualcuno ha provato a far partire un timido applauso). Ma poco dopo, ogni illusione viene definitivamente distrutta: in contrasto con il bianco abbagliante dei marmi, in un vicolo buio avviene uno stupro.
Dove l’architetto cerca di costruire, intorno la distruzione procede, per erosione. Corbet conduce la sua opera al sicuro oltre l’Intermezzo, la sua antiepica del capitalismo è già stata paragonata a titoli come Il petroliere di Paul Thomas Anderson: e le interpretazioni di Brody, Pearce e Jones si distinguono sopra tutte. Sembrerebbe esserci solo un po’ di stanchezza nell’epilogo, dove, nonostante delle splendide immagini veneziane (il desiderio personale qui sarebbe scoprire che Corbet ha voluto omaggiare l’Atlantide di Yuri Ancarani), la summa della vita di Tóth viene affidata a un discorso finale ridondante, che nulla va ad aggiungere a quello che abbiamo già apprezzato nelle tre ore precedenti. Dopo neanche una sbavatura, pare strano. A meno che la genialità non stia nella contraddizione, è qui capirà chi ci arriverà in fondo: il gioco di Corbet si sbugiarda da solo, perché non conta davvero la destinazione, quanto il viaggio. E la vita che abbiamo visto sulla pellicola si spiega da sola: tutto il resto, sono sovrastrutture, che cercano di dare altre forme, a volte violente, a volte più subdole, al cemento grezzo.
Immagine di copertina e nel testo:
frame da The Brutalist